Pensiamo che essere adulti significhi essere indipendenti e non aver bisogno di nessuno. Ecco perché stiamo tutti morendo di solitudine. (Leo Buscaglia)
Tempi moderni, crisi profonda. Ecco a cosa assistiamo oggi: siamo nella crisi del sé, dell’essere sempre insoddisfatti di tutto, del volere tutto e nulla, del vuoto interiore, dell’incapacità di costruirsi e tenersi i legami, della ricerca di valori, della fragilità…della solitudine. Una solitudine che ci immerge, ci sovrasta, ci terrorizza e dalla quale cerchiamo di fuggire i tutti i modi pur senza sapere come. Una solitudine che ci avvolge come un grigiore diffuso, un fumo che ci circonda e fa perdere i confini, e che rende grigie e non riconoscibili le emozioni e i sentimenti, in un perenne vivere sempre al margine di sé stessi senza mai “caderci dentro”. Quel camminare al margine che produce tristezza, una tristezza che, se non riconosciuta e non accolta, può spingere fino alla soglia della depressione. È il mondo delle maschere, di ruoli da recitare per i quali non abbiamo mai imparato bene il copione, nel perenne tentativo di rifuggire un “sé stesso” verso il quale proviamo imbarazzo per il semplice fatto che non lo conosciamo davvero, intrappolati come siamo nei “dover essere” dei dettami familiari e sociali.
La cosa tragica di tutto questo processo è che, di fatto, pur cercando disperatamente di non essere soli, di fatto lo siamo molto di più. Non mi stancherò mai di sottolineare quanto molti legami si siano oggi allentati, quanto non esistano più le famiglie allargate che davano sostegno, reti di parentele e vicinato, resti di sostegno che fatichiamo a costruire e che ci lasciano nella vuota solitudine. In passato, in queste reti allargate, era facile e anche naturale chiedere aiuto: un bisogno, un problema, per qualunque cosa si sapeva che c’era qualcuno su cui poter contare. Oggi abbiamo magari tanti amici, tante conoscenze con le quali entriamo in contatto grazie a una vita più attiva e alle potenzialità dei mezzi di comunicazione, ma di fatto siamo diventati incapaci di creare legami profondi e duraturi, su cui sentire di poter veramente contare. La società si à andata chiudendo in una morsa, paradossalmente uguale e contraria alla spinta troppo accelerata della globalizzazione: la quale non ha fatto altro che invadere, logorare, sperperare i buoni semi della saggezza antica, delle buone tradizioni, di usi e costumi a favore di una continua e incessante creazione di bisogni indotti che ci trasformano in contenitori vuoti che non sappiamo più come riempire. Vuoti e soli: perché i bisogni indotti allontanano da sé stessi e quindi anche dagli altri: siamo sempre più soli tra una moltitudine di persone in movimento, che, sempre alla ricerca di qualcosa fuori da sé, non si fermano mai dentro sé stessi. All’economia moderna interessa solo ed esclusivamente creare una massa indistinta di consumatori anonimi a sé stessi e l’uno all’altro, accomunati solo dai loro bisogni materiali, ma che non si riconoscono più come esseri umani portatori di bisogni interiori da leggere e decifrare. Siamo vittime di una società che crea una scissione tra ciò che siamo realmente e ciò che i bisogni indotti ci vogliono far essere, tra la nostra autentica direzione di vita e le mete che non ci appartengono. Le tecnologie e la vita attiva e intraprendente fa si che siamo insieme a così tante persone: lavoriamo insieme, viaggiamo insieme, chattiamo insieme, ma non si “è” insieme. Siamo apparentemente uniti eppure divisi, anche in seno alle famiglie dove vige incomunicabilità e chiusura, e in una società dove l’altro è mio potenziale nemico, rivale, e stiamo abituando a essere così anche i nostro figli, che vediamo giocare ognuno col suo nintendo piuttosto che socializzare insieme.
In tutto questo sfrenato meccanismo l’Io privato è diventato il deus ex machina a cui è conseguita una inevitabile implosione in sé stessi e nel proprio grigiore interno, slegato dagli altri, incapace di entrare empaticamente in contatto con l’altro e di creare legami realmente significativi, già a partire dalla coppia e dalla famiglia. L’uomo è così divenuto vittima di sé stesso, delle sue passioni, istinti, bisogni indotti, sensazioni interne che non sa più decifrare, a cui non sa dare più un nome, perché manca una capacità di rispecchiarsi nell’altro e di entrare dentro di sé. È schiavo di un “dover essere”, di un modello di efficienza e brillantezza a cui è difficile conformarsi, una continua escalation di richieste senza fine. Tutti ci chiedono di essere in un certo modo e noi dimentichiamo come vogliamo essere davvero per noi stessi. In molte famiglie oramai l’imperativo categorico è diventare qualcuno, studiare per crearsi la posizione, accumulare soldi per soddisfare bisogni sempre più numerosi; si regalano soldi e capi firmati ai figli, l’operazione per rifarsi il seno, oggetti tecnologici, ma non si regala più affettività sincera, non si sa abbracciare, contattare il profondo dell’altro, “stare con”.
Ed eccoci quindi soli e smarriti, in questa metropoli di corse sfrenate al che vinca il migliore, all’essere sempre brillanti ed efficaci. Eccoci rinchiusi in un mondo di “dover essere” che ci rendono soli e vulnerabili, che creano fragilità e insicurezze continue, in un’ accelerazione disumana, frammentata, autoreferenziale e narcisistica del nostro essere, in cui i timori prevalgono sulle speranze. Eccoci soli e smarriti in un’assenza di prospettive future che deriva da una totale mancanza di contatto con ciò che siamo e che vogliamo realmente. Una generazione che non riesce più a vedere il bello della condivisione ma che è rinchiusa nel proprio io individuale/privatistico, in una società che favorisce il godimento di beni sempre più numerosi ed estemporanei e che non aiuta per niente a calarsi dentro di sé, a “fermare” le emozioni per trasformarle in sentimenti e che insegna a godere dell’effimero, nell’idea che quindi “tutto passerà”, nulla sarà stabile, compresi gli affetti, diventati anch’essi “beni a consumo”, amori fittizi, passioni passeggere, surrogati alieni di ciò che davvero è profondità e coinvolgimento, impegno, empatia. E in tale quadro non abbiamo più idea di cosa senta l’altro, di cosa abbia dentro, incapaci di “contatto”. Eccoci quindi soli in un’era di alessitimia sentimentale in cui si è tanto bravi a decifrare linguaggi-macchina, maneggiare tecnologie, ma ben poco capaci di maneggiare e decifrare stati d’animo, emozioni, relazioni, vissuti. Ecco quindi che questi vissuti, che non sappiamo né leggere né condividere, si accumulano dentro di noi come un qualcosa di sconosciuto che, come tale, diventa terrificante e cerca di uscire in tutti i modi in forme che diventano anche parossistiche: ecco quindi ansia, attacchi di panico, depressione, in generale disturbi psicosomatici. I grandi mali della nostra società moderna: un grido interiore di paura verso i nostri vissuti interiori che spesso è forte e assordante e che si preferisce mettere a tacere con altri surrogati: ed ecco perché siamo nell’epoca delle dipendenze da shopping, da computer, da gioco. Perché invece non usciamo da questa angusta seppur rassicurante torre d’avorio in cui ci siamo infilati e non impariamo a levare alto il grido esistenziale che vuole essere ascoltato? Prendere in mano la propria vita, chiedere aiuto, sono un dovere morale verso noi stessi, se crediamo che questa nostra vita valga qualcosa.
Questa società che innalza mura sempre più spesse attorno alle esistenze personali isola sempre di più dai rapporti umani fornendone sostituti virtuali, fornendo surrogati tecnologici e materiali. E il chiudersi in sé alimenta la diffidenza al punto che non ci si fida più ad aprirci all’altro, non ci si fida, in generale, dell’altro. E in questa gabbia di anoressia sentimentale si finisce per non chiedere più neanche aiuto ad uno psicologo o approfittare di quelle occasioni come gruppi d’incontro, dibattiti, seminari che vengono messi a disposizione delle persone, le quali potrebbero invece trovare, in queste occasioni, una risposta, seppur parziale, ai loro dubbi e un conforto a un loro grido interiore oltre che essere occasioni per intessere rapporti umani.
“Gli uomini”, dice il Piccolo Principe, “coltivano cinquemila rose nello stesso giardino… e non trovano quello che cercano” “E tuttavia quello che cercano potrebbe essere trovato in una sola rosa o in un po’ d’acqua”… “Ma gli occhi sono ciechi. Bisogna cercare col cuore “. Ecco l’uomo contemporaneo, perso in una sterile ricerca di sé stesso fatta però in luoghi e contesti che paradossalmente da sé stesso lo allontanano sempre di più. Ecco l’uomo perso e solo in una continua, inesausta, utopistica ricerca esteriore di autentici significati, di spiegazioni che non riesce tuttavia a trovare, di un porto che diventa sempre più lontano e sempre più impossibile da raggiungere; perso tra mille voci assordanti che confondono la sua voce autentica e che allontanano dal silenzio dell’anima. In questa sua irrazionale e frustrante ricerca l’uomo non capisce che tutto questo suo girovagare non fa che allontanarlo sempre più dalla vera sorgente che potrebbe finalmente dissetarlo, ma che potrebbe trovare solo nella propria intima interiorità e nella condivisione con l’altro.
Se non gettiamo la maschera non riusciremo a leggerci con autenticità e non riusciremo a leggere neanche l’altro con la stessa autenticità, non riusciremo a contattarlo realmente e profondamente. Non sapremo quindi neanche chiedergli aiuto quando si presentasse il bisogno. Se lo chiediamo qualcuno che risponde ci sarà sicuramente, se invece non lo chiederemo il messaggio non partirà mai e nessuno potrà ascoltarlo e venirci incontro. Quando si dice che si deve imparare a stare bene prima da soli e poi in relazione non significa che dobbiamo chiuderci nel nostro delimitato e angusto confine, perché lo stare bene soli è ben più che chiudersi orgogliosamente in sé stessi: vuol dire stare bene con sé stessi, vuol dire non avere costantemente bisogno dell’altro per vivere, ma vuol dire anche saper godere delle gioie della condivisione, dello “stare con” e del chiedere aiuto quando necessario. Non si può portare totalmente da soli il peso di un problema che ci affligge e dire orgogliosamente “devo farcela da solo”: è solo un potente autoinganno che ci si ritorce contro.
In più è doverosa una ulteriore riflessione: è possibile una solitudine buona, positiva, desiderabile? Diceva Nietzsche: ” Io ho bisogno della solitudine, voglio dire del ritorno a me stesso”; e Rostand: ” Essere adulto vuol dire essere solo”; e Sarano: ” La nostra epoca ha due grandi mali: la solitudine e l’assenza di solitudine”. Ad una prima analisi di queste affermazioni sembrerebbe che questi filosofi amino la solitudine. Niente di più falso. Il paradosso attuale è che da un lato temiamo la solitudine, cercando di riempire il vuoto a ogni costo, anche con un partner sbagliato, o con dipendenze di vario genere, fughe da sé stessi ecc; dall’altro siamo, di fatto, sempre più soli: e questo per i motivi detti sopra. Se fossimo in contatto con noi stessi non avremo neanche ragione di temere la solitudine, perché quei momenti ci servirebbero per entrarci dentro, per stare in contatto con la propria interiorità. Se quindi fossimo in contatto autentico con noi stessi sapremmo sia cercare il profondo contatto con l’altro, sia il profondo contatto con noi stessi e la nostra “solitudine” non sarebbe più pesante come un macigno. La compagnia degli altri, o quella di un partner, non sarebbe più un ancora a cui aggrapparsi, una fuga da sé stessi, bensì sarebbe un arricchimento personale di un Io che è già a contatto con il sé. C’è da riflettere molto, quindi, quando diciamo “io sto bene solo, non ho bisogno degli altri, me la so cavare da solo” o l’abuso fin troppo sentito del “meglio soli che male accompagnati”: ciò indica che vediamo meglio la propria solitudine che una somma di solitudini, ovvero che di fatto non siamo capaci di intessere relazioni autentiche là fuori perché non siamo a contatto con noi stessi, e questo perché se non sappiamo chi siamo, da quali sé siamo composti, come li mettiamo in gioco, presenteremo agli altri una maschera e mai il nostro vero Io e quindi non costruiremo mai rapporti veri.
Nel mondo della connettività, della brulicante vita di città con la sua frenesia, le sue attività, i suoi stimoli, siamo circondati di folla e di gente. Eppure quante volte ci capita di sentirci soli tra la gente? Perché di fatto siamo una massa indistinta, siamo soli tra tanti. Si era meno soli quando si era di meno; quando si era meno numerosi, meno concentrati, meno affollati, perché era più facile connettersi realmente alle altre persone e perché non si viveva in terribili “tu devi” di comportamento, di come dobbiamo essere e apparire per essere efficienti e brillanti. In passato non esisteva la folla, se non in quelle occasioni di aggregazione sociale in cui la ritualità aveva ancora un valore e scandiva i momenti di comunità in connessione con i ritmi e le stagioni dell’anno: ma era una folla diversa, perché ciascuno si rapportava alla comunità rafforzando in essa il proprio senso di appartenenza e quindi la propria identità, la propria essenza e il proprio valore. La folla moderna invece è spersonalizzante, in essa si viene divorati, si scompare, ci si maschera, ci si omologa, ci si frammenta, ci si annulla. Quindi nella folla indistinta avvertiamo disorientamento, non sappiamo più chi dobbiamo essere per accontentare tutte queste persone: di fatto non sappiamo più chi siamo e chi dobbiamo essere e di conseguenza abbiamo quindi difficoltà ad aprirci, ad instaurare un’intimità con l’altro, perché ne abbiamo paura; se non ci conosciamo nel profondo avremo paura di noi stessi e degli altri. Quante volte sentiamo dire “ho perso la fiducia in tutti, meglio stare soli” oppure “gli altri sono sempre pronti a ferirti, vadano tutti al diavolo” e si coltiva in noi stessi solitudine e una forzata misantropia. Fa fatica conoscersi, fa fatica essere sé stessi. Ma del resto mica possiamo piacere a tutti: eppure il rifiuto degli altri pesa come un macigno proprio a causa di un ideale sociale che ci vuole intraprendenti e brillanti e che mette al bando il nostro vero modo di essere; e quindi meglio non coltivare rapporti autentici che possono ferirci.
Proprio in tale contesto si inserisce l’uso spesso eccessivo delle tecnologie. Affidiamo le nostre parole, l’espressione dei nostri stati d’animo, a strumenti come il cellulare, gli sms, le chat, in cui la corporeità è assente e con essa anche la parte più vera della persona. Sicuramente straordinari strumenti di lavoro e di connettività che però possono contribuire a creare vere e proprie celle di isolamento. Tante persone, soprattutto giovani trascorrono ore davanti allo schermo di un computer, navigando in internet o parlando attraverso le chat credendo apparentemente di comunicare ma in realtà riempiendosi solo di maschere. Si tratta spesso di una comunicazione mascherata, che rischia di favorire l’isolamento e l’incapacità di sostenere un autentico rapporto con gli altri. Spesso infatti si tratta di persone che hanno anche 400 amici virtuali ma ben poche relazioni autentiche.
Di fatto quindi, quando si parla di solitudine dell’uomo moderno, non si parla di una solitudine fisica, bensì interiore, psicologica, spirituale: perché ciascuno è talmente preso da se stesso, dai ritmi insostenibili della modernità, dai tristi riti del consumismo, da non riuscire più a comunicare con gli altri, nemmeno con la propria moglie o il proprio marito; nemmeno con i propri figli o con i propri genitori. Siamo esseri soli e sguinzagliati in questa massa indistinta dove la distanza interiore dall’altro ce lo fa apparire come un nemico pronto a colpirci in qualunque momento. Perché nella lotta per la vita, di darwiniana memoria, non c’è più posto per il tu, è già anche troppo stare dietro al proprio io, difendersi dalle innumerevoli minacce esterne: ciascuno pensa per sé e nessuno pensa a tutti quanti, dato che Dio, che forse ci pensava prima, ormai è morto, ucciso dalle nostre stesse mani. E in tutto questo l’interiorità spirituale ed esistenziale, il nucleo autentico dell’uomo, è stato schiacciato come un verme sotto i piedi di un mostro enorme che si chiama consumismo, globalizzazione, egocentrismo, volontà di onnipotenza. Oramai la nostra interiorità è divenuta un baratro oscuro in cui si ha paura di cadere piuttosto che una ricchezza sconfinata a cui attingere. Ecco quindi il grido, l’urlo di Munch, il grido della caduta libera in un nero vuoto: quanto dobbiamo gridare forte per farci sentire??? Quanto forte deve essere un attacco di panico perché qualcuno si accorga di noi? Quanta ansia dobbiamo manifestare perché qualcuno ci prenda in considerazione? Quanta depressione dobbiamo covare dentro di noi per far capire che non sappiamo più come fare per sopravvivere in questa folla divorante e indistinta? Ecco perché bastano poche ore di solitudine per mandare in crisi molte persone, bastano pochi giorni senza la televisione o il cellulare o internet per far piombare l’essere umano in una specie di terrore del vuoto, del silenzio, un silenzio a cui la nostra anima non è più abituata e che è così terrificante perché ci metterebbe faccia a faccia con un’anima che non siamo più abituati a vedere.
Chiudo con un brano tratto dal Piccolo Principe che fa capire benissimo l’importanza dell’altro.
Pensiamo che essere adulti significhi essere indipendenti e non aver bisogno di nessuno. Ecco perché stiamo tutti morendo di solitudine. (Leo Buscaglia)
Tempi moderni, crisi profonda. Ecco a cosa assistiamo oggi: siamo nella crisi del sé, dell’essere sempre insoddisfatti di tutto, del volere tutto e nulla, del vuoto interiore, dell’incapacità di costruirsi e tenersi i legami, della ricerca di valori, della fragilità…della solitudine. Una solitudine che ci immerge, ci sovrasta, ci terrorizza e dalla quale cerchiamo di fuggire i tutti i modi pur senza sapere come. Una solitudine che ci avvolge come un grigiore diffuso, un fumo che ci circonda e fa perdere i confini, e che rende grigie e non riconoscibili le emozioni e i sentimenti, in un perenne vivere sempre al margine di sé stessi senza mai “caderci dentro”. Quel camminare al margine che produce tristezza, una tristezza che, se non riconosciuta e non accolta, può spingere fino alla soglia della depressione. È il mondo delle maschere, di ruoli da recitare per i quali non abbiamo mai imparato bene il copione, nel perenne tentativo di rifuggire un “sé stesso” verso il quale proviamo imbarazzo per il semplice fatto che non lo conosciamo davvero, intrappolati come siamo nei “dover essere” dei dettami familiari e sociali.
La cosa tragica di tutto questo processo è che, di fatto, pur cercando disperatamente di non essere soli, di fatto lo siamo molto di più. Non mi stancherò mai di sottolineare quanto molti legami si siano oggi allentati, quanto non esistano più le famiglie allargate che davano sostegno, reti di parentele e vicinato, resti di sostegno che fatichiamo a costruire e che ci lasciano nella vuota solitudine. In passato, in queste reti allargate, era facile e anche naturale chiedere aiuto: un bisogno, un problema, per qualunque cosa si sapeva che c’era qualcuno su cui poter contare. Oggi abbiamo magari tanti amici, tante conoscenze con le quali entriamo in contatto grazie a una vita più attiva e alle potenzialità dei mezzi di comunicazione, ma di fatto siamo diventati incapaci di creare legami profondi e duraturi, su cui sentire di poter veramente contare. La società si à andata chiudendo in una morsa, paradossalmente uguale e contraria alla spinta troppo accelerata della globalizzazione: la quale non ha fatto altro che invadere, logorare, sperperare i buoni semi della saggezza antica, delle buone tradizioni, di usi e costumi a favore di una continua e incessante creazione di bisogni indotti che ci trasformano in contenitori vuoti che non sappiamo più come riempire. Vuoti e soli: perché i bisogni indotti allontanano da sé stessi e quindi anche dagli altri: siamo sempre più soli tra una moltitudine di persone in movimento, che, sempre alla ricerca di qualcosa fuori da sé, non si fermano mai dentro sé stessi. All’economia moderna interessa solo ed esclusivamente creare una massa indistinta di consumatori anonimi a sé stessi e l’uno all’altro, accomunati solo dai loro bisogni materiali, ma che non si riconoscono più come esseri umani portatori di bisogni interiori da leggere e decifrare. Siamo vittime di una società che crea una scissione tra ciò che siamo realmente e ciò che i bisogni indotti ci vogliono far essere, tra la nostra autentica direzione di vita e le mete che non ci appartengono. Le tecnologie e la vita attiva e intraprendente fa si che siamo insieme a così tante persone: lavoriamo insieme, viaggiamo insieme, chattiamo insieme, ma non si “è” insieme. Siamo apparentemente uniti eppure divisi, anche in seno alle famiglie dove vige incomunicabilità e chiusura, e in una società dove l’altro è mio potenziale nemico, rivale, e stiamo abituando a essere così anche i nostro figli, che vediamo giocare ognuno col suo nintendo piuttosto che socializzare insieme.
In tutto questo sfrenato meccanismo l’Io privato è diventato il deus ex machina a cui è conseguita una inevitabile implosione in sé stessi e nel proprio grigiore interno, slegato dagli altri, incapace di entrare empaticamente in contatto con l’altro e di creare legami realmente significativi, già a partire dalla coppia e dalla famiglia. L’uomo è così divenuto vittima di sé stesso, delle sue passioni, istinti, bisogni indotti, sensazioni interne che non sa più decifrare, a cui non sa dare più un nome, perché manca una capacità di rispecchiarsi nell’altro e di entrare dentro di sé. È schiavo di un “dover essere”, di un modello di efficienza e brillantezza a cui è difficile conformarsi, una continua escalation di richieste senza fine. Tutti ci chiedono di essere in un certo modo e noi dimentichiamo come vogliamo essere davvero per noi stessi. In molte famiglie oramai l’imperativo categorico è diventare qualcuno, studiare per crearsi la posizione, accumulare soldi per soddisfare bisogni sempre più numerosi; si regalano soldi e capi firmati ai figli, l’operazione per rifarsi il seno, oggetti tecnologici, ma non si regala più affettività sincera, non si sa abbracciare, contattare il profondo dell’altro, “stare con”.
Ed eccoci quindi soli e smarriti, in questa metropoli di corse sfrenate al che vinca il migliore, all’essere sempre brillanti ed efficaci. Eccoci rinchiusi in un mondo di “dover essere” che ci rendono soli e vulnerabili, che creano fragilità e insicurezze continue, in un’ accelerazione disumana, frammentata, autoreferenziale e narcisistica del nostro essere, in cui i timori prevalgono sulle speranze. Eccoci soli e smarriti in un’assenza di prospettive future che deriva da una totale mancanza di contatto con ciò che siamo e che vogliamo realmente. Una generazione che non riesce più a vedere il bello della condivisione ma che è rinchiusa nel proprio io individuale/privatistico, in una società che favorisce il godimento di beni sempre più numerosi ed estemporanei e che non aiuta per niente a calarsi dentro di sé, a “fermare” le emozioni per trasformarle in sentimenti e che insegna a godere dell’effimero, nell’idea che quindi “tutto passerà”, nulla sarà stabile, compresi gli affetti, diventati anch’essi “beni a consumo”, amori fittizi, passioni passeggere, surrogati alieni di ciò che davvero è profondità e coinvolgimento, impegno, empatia. E in tale quadro non abbiamo più idea di cosa senta l’altro, di cosa abbia dentro, incapaci di “contatto”. Eccoci quindi soli in un’era di alessitimia sentimentale in cui si è tanto bravi a decifrare linguaggi-macchina, maneggiare tecnologie, ma ben poco capaci di maneggiare e decifrare stati d’animo, emozioni, relazioni, vissuti. Ecco quindi che questi vissuti, che non sappiamo né leggere né condividere, si accumulano dentro di noi come un qualcosa di sconosciuto che, come tale, diventa terrificante e cerca di uscire in tutti i modi in forme che diventano anche parossistiche: ecco quindi ansia, attacchi di panico, depressione, in generale disturbi psicosomatici. I grandi mali della nostra società moderna: un grido interiore di paura verso i nostri vissuti interiori che spesso è forte e assordante e che si preferisce mettere a tacere con altri surrogati: ed ecco perché siamo nell’epoca delle dipendenze da shopping, da computer, da gioco. Perché invece non usciamo da questa angusta seppur rassicurante torre d’avorio in cui ci siamo infilati e non impariamo a levare alto il grido esistenziale che vuole essere ascoltato? Prendere in mano la propria vita, chiedere aiuto, sono un dovere morale verso noi stessi, se crediamo che questa nostra vita valga qualcosa.
Questa società che innalza mura sempre più spesse attorno alle esistenze personali isola sempre di più dai rapporti umani fornendone sostituti virtuali, fornendo surrogati tecnologici e materiali. E il chiudersi in sé alimenta la diffidenza al punto che non ci si fida più ad aprirci all’altro, non ci si fida, in generale, dell’altro. E in questa gabbia di anoressia sentimentale si finisce per non chiedere più neanche aiuto ad uno psicologo o approfittare di quelle occasioni come gruppi d’incontro, dibattiti, seminari che vengono messi a disposizione delle persone, le quali potrebbero invece trovare, in queste occasioni, una risposta, seppur parziale, ai loro dubbi e un conforto a un loro grido interiore oltre che essere occasioni per intessere rapporti umani.
“Gli uomini”, dice il Piccolo Principe, “coltivano cinquemila rose nello stesso giardino… e non trovano quello che cercano” “E tuttavia quello che cercano potrebbe essere trovato in una sola rosa o in un po’ d’acqua”… “Ma gli occhi sono ciechi. Bisogna cercare col cuore “. Ecco l’uomo contemporaneo, perso in una sterile ricerca di sé stesso fatta però in luoghi e contesti che paradossalmente da sé stesso lo allontanano sempre di più. Ecco l’uomo perso e solo in una continua, inesausta, utopistica ricerca esteriore di autentici significati, di spiegazioni che non riesce tuttavia a trovare, di un porto che diventa sempre più lontano e sempre più impossibile da raggiungere; perso tra mille voci assordanti che confondono la sua voce autentica e che allontanano dal silenzio dell’anima. In questa sua irrazionale e frustrante ricerca l’uomo non capisce che tutto questo suo girovagare non fa che allontanarlo sempre più dalla vera sorgente che potrebbe finalmente dissetarlo, ma che potrebbe trovare solo nella propria intima interiorità e nella condivisione con l’altro.
Se non gettiamo la maschera non riusciremo a leggerci con autenticità e non riusciremo a leggere neanche l’altro con la stessa autenticità, non riusciremo a contattarlo realmente e profondamente. Non sapremo quindi neanche chiedergli aiuto quando si presentasse il bisogno. Se lo chiediamo qualcuno che risponde ci sarà sicuramente, se invece non lo chiederemo il messaggio non partirà mai e nessuno potrà ascoltarlo e venirci incontro. Quando si dice che si deve imparare a stare bene prima da soli e poi in relazione non significa che dobbiamo chiuderci nel nostro delimitato e angusto confine, perché lo stare bene soli è ben più che chiudersi orgogliosamente in sé stessi: vuol dire stare bene con sé stessi, vuol dire non avere costantemente bisogno dell’altro per vivere, ma vuol dire anche saper godere delle gioie della condivisione, dello “stare con” e del chiedere aiuto quando necessario. Non si può portare totalmente da soli il peso di un problema che ci affligge e dire orgogliosamente “devo farcela da solo”: è solo un potente autoinganno che ci si ritorce contro.
In più è doverosa una ulteriore riflessione: è possibile una solitudine buona, positiva, desiderabile? Diceva Nietzsche: ” Io ho bisogno della solitudine, voglio dire del ritorno a me stesso”; e Rostand: ” Essere adulto vuol dire essere solo”; e Sarano: ” La nostra epoca ha due grandi mali: la solitudine e l’assenza di solitudine”. Ad una prima analisi di queste affermazioni sembrerebbe che questi filosofi amino la solitudine. Niente di più falso. Il paradosso attuale è che da un lato temiamo la solitudine, cercando di riempire il vuoto a ogni costo, anche con un partner sbagliato, o con dipendenze di vario genere, fughe da sé stessi ecc; dall’altro siamo, di fatto, sempre più soli: e questo per i motivi detti sopra. Se fossimo in contatto con noi stessi non avremo neanche ragione di temere la solitudine, perché quei momenti ci servirebbero per entrarci dentro, per stare in contatto con la propria interiorità. Se quindi fossimo in contatto autentico con noi stessi sapremmo sia cercare il profondo contatto con l’altro, sia il profondo contatto con noi stessi e la nostra “solitudine” non sarebbe più pesante come un macigno. La compagnia degli altri, o quella di un partner, non sarebbe più un ancora a cui aggrapparsi, una fuga da sé stessi, bensì sarebbe un arricchimento personale di un Io che è già a contatto con il sé. C’è da riflettere molto, quindi, quando diciamo “io sto bene solo, non ho bisogno degli altri, me la so cavare da solo” o l’abuso fin troppo sentito del “meglio soli che male accompagnati”: ciò indica che vediamo meglio la propria solitudine che una somma di solitudini, ovvero che di fatto non siamo capaci di intessere relazioni autentiche là fuori perché non siamo a contatto con noi stessi, e questo perché se non sappiamo chi siamo, da quali sé siamo composti, come li mettiamo in gioco, presenteremo agli altri una maschera e mai il nostro vero Io e quindi non costruiremo mai rapporti veri.
Nel mondo della connettività, della brulicante vita di città con la sua frenesia, le sue attività, i suoi stimoli, siamo circondati di folla e di gente. Eppure quante volte ci capita di sentirci soli tra la gente? Perché di fatto siamo una massa indistinta, siamo soli tra tanti. Si era meno soli quando si era di meno; quando si era meno numerosi, meno concentrati, meno affollati, perché era più facile connettersi realmente alle altre persone e perché non si viveva in terribili “tu devi” di comportamento, di come dobbiamo essere e apparire per essere efficienti e brillanti. In passato non esisteva la folla, se non in quelle occasioni di aggregazione sociale in cui la ritualità aveva ancora un valore e scandiva i momenti di comunità in connessione con i ritmi e le stagioni dell’anno: ma era una folla diversa, perché ciascuno si rapportava alla comunità rafforzando in essa il proprio senso di appartenenza e quindi la propria identità, la propria essenza e il proprio valore. La folla moderna invece è spersonalizzante, in essa si viene divorati, si scompare, ci si maschera, ci si omologa, ci si frammenta, ci si annulla. Quindi nella folla indistinta avvertiamo disorientamento, non sappiamo più chi dobbiamo essere per accontentare tutte queste persone: di fatto non sappiamo più chi siamo e chi dobbiamo essere e di conseguenza abbiamo quindi difficoltà ad aprirci, ad instaurare un’intimità con l’altro, perché ne abbiamo paura; se non ci conosciamo nel profondo avremo paura di noi stessi e degli altri. Quante volte sentiamo dire “ho perso la fiducia in tutti, meglio stare soli” oppure “gli altri sono sempre pronti a ferirti, vadano tutti al diavolo” e si coltiva in noi stessi solitudine e una forzata misantropia. Fa fatica conoscersi, fa fatica essere sé stessi. Ma del resto mica possiamo piacere a tutti: eppure il rifiuto degli altri pesa come un macigno proprio a causa di un ideale sociale che ci vuole intraprendenti e brillanti e che mette al bando il nostro vero modo di essere; e quindi meglio non coltivare rapporti autentici che possono ferirci.
Proprio in tale contesto si inserisce l’uso spesso eccessivo delle tecnologie. Affidiamo le nostre parole, l’espressione dei nostri stati d’animo, a strumenti come il cellulare, gli sms, le chat, in cui la corporeità è assente e con essa anche la parte più vera della persona. Sicuramente straordinari strumenti di lavoro e di connettività che però possono contribuire a creare vere e proprie celle di isolamento. Tante persone, soprattutto giovani trascorrono ore davanti allo schermo di un computer, navigando in internet o parlando attraverso le chat credendo apparentemente di comunicare ma in realtà riempiendosi solo di maschere. Si tratta spesso di una comunicazione mascherata, che rischia di favorire l’isolamento e l’incapacità di sostenere un autentico rapporto con gli altri. Spesso infatti si tratta di persone che hanno anche 400 amici virtuali ma ben poche relazioni autentiche.
Di fatto quindi, quando si parla di solitudine dell’uomo moderno, non si parla di una solitudine fisica, bensì interiore, psicologica, spirituale: perché ciascuno è talmente preso da se stesso, dai ritmi insostenibili della modernità, dai tristi riti del consumismo, da non riuscire più a comunicare con gli altri, nemmeno con la propria moglie o il proprio marito; nemmeno con i propri figli o con i propri genitori. Siamo esseri soli e sguinzagliati in questa massa indistinta dove la distanza interiore dall’altro ce lo fa apparire come un nemico pronto a colpirci in qualunque momento. Perché nella lotta per la vita, di darwiniana memoria, non c’è più posto per il tu, è già anche troppo stare dietro al proprio io, difendersi dalle innumerevoli minacce esterne: ciascuno pensa per sé e nessuno pensa a tutti quanti, dato che Dio, che forse ci pensava prima, ormai è morto, ucciso dalle nostre stesse mani. E in tutto questo l’interiorità spirituale ed esistenziale, il nucleo autentico dell’uomo, è stato schiacciato come un verme sotto i piedi di un mostro enorme che si chiama consumismo, globalizzazione, egocentrismo, volontà di onnipotenza. Oramai la nostra interiorità è divenuta un baratro oscuro in cui si ha paura di cadere piuttosto che una ricchezza sconfinata a cui attingere. Ecco quindi il grido, l’urlo di Munch, il grido della caduta libera in un nero vuoto: quanto dobbiamo gridare forte per farci sentire??? Quanto forte deve essere un attacco di panico perché qualcuno si accorga di noi? Quanta ansia dobbiamo manifestare perché qualcuno ci prenda in considerazione? Quanta depressione dobbiamo covare dentro di noi per far capire che non sappiamo più come fare per sopravvivere in questa folla divorante e indistinta? Ecco perché bastano poche ore di solitudine per mandare in crisi molte persone, bastano pochi giorni senza la televisione o il cellulare o internet per far piombare l’essere umano in una specie di terrore del vuoto, del silenzio, un silenzio a cui la nostra anima non è più abituata e che è così terrificante perché ci metterebbe faccia a faccia con un’anima che non siamo più abituati a vedere.
Chiudo con un brano tratto dal Piccolo Principe che fa capire benissimo l’importanza dell’altro.
“No”, disse il piccolo principe. “Cerco degli amici. Che cosa vuol dire addomesticare?”
“E’ una cosa da molto tempo dimenticata. Vuol dire creare dei legami…”
“Creare dei legami?”
“Certo”, disse la volpe. “Tu, fino a ora, per me, non sei che un ragazzino uguale a centomila ragazzini. E non ho bisogno di te. E neppure tu hai bisogno di me. Io non sono che una volpe uguale a centomila volpi. Ma se tu mi addomestichi, noi avremo bisogno l’uno dell’altro. Tu sarai per me unico al mondo, e io sarò per te unica al mondo”.
“Comincio a capire”, disse il piccolo principe. “C’è un fiore… credo che mi abbia addomesticato…”
Ma la volpe ritornò della sua idea:
“La mia vita è monotona. Io do la caccia alle galline, e gli uomini danno la caccia a me. Tutte le galline si assomigliano, e tutti gli uomini si assomigliano. E io mi annoio per ciò. Ma se tu mi addomestichi, la mia vita sarà come illuminata. Conoscerò un rumore di passi che sarà diverso da tutti gli altri. Gli altri passi mi fanno nascondere sotto terra. Il tuo, mi farà uscire dalla tana, come una musica. E poi, guarda! Vedi, laggiù in fondo, dei campi di grano? Io non mangio il pane e il grano, per me è inutile. I campi di grano non mi ricordano nulla. E questo è triste! Ma tu hai dei capelli color dell’oro. Allora sarà meraviglioso quando mi avrai addomesticato. Il grano, che è dorato, mi farà pensare a te. E amerò il rumore del vento nel grano…”
La volpe tacque e guardò a lungo il piccolo principe:
“Per favore… addomesticami”, disse.
“Volentieri”, rispose il piccolo principe, “ma non ho molto tempo, però. Ho da scoprire degli amici, e da conoscere molte cose”.
“Non si conoscono che le cose che si addomesticano”, disse la volpe. “Gli uomini non hanno più tempo per conoscere nulla. Comprano dai mercanti le cose già fatte. Ma siccome non esistono mercanti di amici, gli uomini non hanno più amici. Se tu vuoi un amico addomesticami!”
“Che bisogna fare?” domandò il piccolo principe.
“Bisogna essere molto pazienti”, rispose la volpe. “In principio tu ti sederai un po’ lontano da me, così, nell’erba. Io ti guarderò con la coda dell’occhio e tu non dirai nulla. Le parole sono una fonte di malintesi. Ma ogni giorno tu potrai sederti un po’ più vicino…”
Il piccolo principe ritornò l’indomani.
“Sarebbe stato meglio ritornare alla stessa ora”, disse la volpe. “Se tu vieni per esempio tutti i pomeriggi alle quattro, dalle tre io comincerò a essere felice. Col passare dell’ora aumenterà la mia felicità. Quando saranno le quattro, incomincerò ad agitarmi e a inquietarmi; scoprirò il prezzo della felicità! Ma se tu vieni non si sa quando, io non saprò mai a che ora prepararmi il cuore… Ci vogliono i riti!”.
“Che cos’è un rito?”(…)
“E’ quello che fa un giorno diverso dagli altri giorni, un’ora dalle altre ore.”(…)
Così il piccolo principe addomesticò la volpe.
E quando l’ora della partenza fu vicina:
“Ah!” disse la volpe, “…piangerò”.
“La colpa è tua”, disse il piccolo principe, “io, non ti volevo far del male, ma tu hai voluto che ti addomesticassi…”
“E’ vero”, disse la volpe.
“Ma piangerai!” disse il piccolo principe.
“E’ certo”, disse la volpe.
“Ma allora che ci guadagni?”
“Ci guadagno”, disse la volpe, “il colore del grano”.
(Saint-Exupéry, 1943).
DOTT.SSA CHIARA PICA