Già nel ‘500, il medico naturalista e filosofo Paracelso paragonava lo stomaco a un laboratorio alchemico: il processo alchemico, detto “Grande Opera”, si proponeva di trarre dagli elementi grezzi della natura la “quintessenza”; tale operazione iniziava con la purificazione da parte del fuoco, che liberava gli elementi grezzi dalla loro sostanza fondamentale. Così fa lo stomaco, che “brucia” il cibo e lo trasforma in elementi essenziali. Lo stomaco è luogo e strumento di trasformazione anche in molti miti antichi e moderni, in cui l’eroe viene inghiottito da un mostro e rimane nel suo stomaco fino a quando viene restituito al mondo, trasformato. È quanto accade nel mito biblico di Giona ma anche nella storia di Pinocchio, dove l’essere inghiottito dalla balena è il passaggio-chiave che gli consente di ritrovare il padre e tornare nel mondo per trasformarsi in bambino. Cioè dalla materia grezza diviene essenza vitale. Lo stomaco si lega così anche a tutti i miti di “discesa agli inferi” (da Ulisse nell’Odissea a Dante nella Divina Commedia), in cui il “ritorno al mondo” è il frutto di un cambiamento interiore che consente una nuova visione del mondo. Una cavità profonda in cui si discende sembra dunque il passaggio obbligato perché si possa verificare una vera trasformazione, un “passaggio di maturità”. Lo stomaco quindi si fa carico simbolicamente di tutto ciò che riguarda il nutrimento, come gli affetti, i legami e le emozioni che ci alimentano.
Vediamo infatti, tra l’altro, come il cibo non è mai separato dal contesto in cui viene assunto, caricandosi di significati legati al contesto in cui viene consumato. Ad esempio sappiamo bene come un pasto possa divenire indigesto se consumato insieme a persone sgradevoli o in un’atmosfera di tensione. Gli alimenti veicolano nel nostro stomaco le emozioni e i sentimenti a cui sono associati. È quindi importante comprendere che, se si ammala lo stomaco, ciò non dipende certo solo dal tipo di cibo ingerito, magari perché ne siamo intolleranti, ma dal cibo simbolico, ovvero al nutrimento emotivo e affettivo. Pertanto, se è bene valutare quali cibi ci risultano indigesti o pesanti, sarà bene anche valutare attentamente di quali emozioni, persone, relazioni è bene liberarsi. I disturbi dello stomaco (gastriti, ulcere, ecc…) infatti, segnalano l’abitudine e inghiottire anche le cose che non vanno, come se lo stomaco fosse costretto a una lenta digestione della rabbia. Già di per sé la nutrizione è caratterizzata da un simbolismo ben preciso, perché nei cibi che l’uomo preferisce o rifiuta già si riconoscono molte cose (dimmi come mangi e ti dirò chi sei!). la fame stessa se eccessiva è simbolo del voler avere, del voler introdurre, ed è espressione di una certa bramosia, come nel caso dell’ingordigia per le cose dolci in chi ha fame d’amore, o in quei bambini con carenze affettive i cui genitori rimediano a questa carenza riempiendoli di dolciumi, se gli si muove una critica essi diranno che per i loro figli “fanno tutto”. Ma “fare tutto” e “amare” non sono certo la stessa cosa. Nutrirsi vuol dire anche porsi in relazione affettiva con la persona che ci dà da mangiare, e in primo luogo con la figura materna, che nell’esperienza di ogni uomo è stata la prima figura a dare nutrimento. Nei problemi di appetito eccessivo e sregolato, ad esempio, si possono ritrovare i disagi di colui che tende alla dipendenza affettiva. Ma non solo: lo stomaco e il tubo digerente si caricano anche di altri significati. Ogni volta che ognuno di noi mangia si metterà in rapporto con la funzione alimentare, intesa come processo fondamentale attraverso il quale ogni essere vivente fa sue parti del mondo esterno per poterle trasformare e utilizzare allo scopo di costruire le proprie strutture e mantenere le funzioni vitali. Le numerose metafore, infatti, utilizzate nel linguaggio comune, sottolineano in modo inequivocabile questi concetti e spiegano perfettamente i legami connessi tra funzione gastrica, il mondo dei pensieri e delle emozioni: “Avere qualcosa o qualcuno sullo stomaco”, “Quante ne ho mandate giù”, “Il solo pensarci mi dà la nausea”, “Non posso proprio digerirlo”, “Non riesco a mandarlo giù”, “Questa cosa mi è rimasta sullo stomaco”. Tutti modi di dire che identificano un contenuto che non riusciamo a metabolizzare dentro di noi, ad accogliere, sia esso un legame, un vissuto, un’emozione.
Vediamo che però lo stomaco ha una funzione anche nell’ambito di chi si carica eccessivamente di cose da fare, non sa stare fermo con sé stesso, dato che la produzione di succhi gastrici aumenta al momento in cui vi è una iperattività del sistema nervoso autonomo. Ad esempio la carica continua potrebbe portare a una continua produzione di succhi gastrici nello stomaco, che sono per loro natura di tipo aggressivo. Se una persona non riesce a esprimere o a vincere consapevolmente la propria aggressività, ed è costretta ad “inghiottire bocconi amari”, allora lo stomaco potrebbe farsi portavoce di questo vissuto attraverso, ad esempio, gastrite, reflusso, acidità di stomaco. In questo caso il malato di stomaco o non esprime affatto la propria aggressività (inghiotte tutto) o mostra un’aggressività esagerata: entrambi gli estremi sono disfunzionali perché indicano una mancata elaborazione di vissuti. I problemi di stomaco riguardano quindi, spesso, situazioni che non sono state digerite (indigestione) d’idee alimenti o situazioni che rifiutiamo (vomito) situazioni che troviamo ingiuste che fanno male (dolori) o che ci mandano in collera (bruciori. gastrite) una grossa preoccupazione o una ingiustizia o anche una colpa commessa che rimane sullo stomaco, che non si scioglie e che scava è l’ulcera.Se le strategie utilizzate per uscire da questa realtà “indigesta” non trova soluzioni, l’apparato viscerale si assume l’onere di esprimere il rifiuto che non si riconosce a livello cosciente: ecco che un divampante fuoco può segnalare un disagio esistenziale. In questo modo lo stomaco mette in atto la sua protesta come può, riversando contro l’ambiente ostile la sua aggressività incontrollabile.
Che tipologia di personalità ha dunque il sofferente di stomaco? Si può ravvisare o una marcata tendenza alla dipendenza, quindi un mancato riconoscimento ed elaborazione dei propri bisogno di attaccarsi morbosamente a qualcuno o a una situazione, un bisogno che spesso viene sublimato in disturbi alimentari come le abbuffate compulsive e l’obesità. Si può inoltre avere questi disturbi in soggetti tendenti alla chiusura in sé stessi, ovvero persone che tendono a non mostrarsi autenticamente per quello che sono, che indossano maschere sociali e che quindi spesso sono costretti a ingoiare i bocconi amari per il quieto vivere o per mancanza di coraggio a dire di no ed esprimersi autenticamente. Ancora, possiamo ravvisare i disturbi di stomaco nei soggetti che tendono vivere di corsa, stressandosi e dando luogo a una iperproduzione di succhi gastrici che aggredisce le pareti dello stomaco.
In tutti questi disagi l’emozione che la fa da padrona è l’aggressività: essa infatti scaturisce proprio dal fatto che, essendo costretti a ingoiare bocconi amari, alla lunga ci carichiamo di rabbia verso quelle situazioni che siamo costretti a buttare giù a forza, o che non sappiamo controllare o dalle quali non siamo in grado di liberarci.
Quindi cosa deve fare il malato di stomaco per guarire? Di certo non basta un antiacido o una pillola. Il malato di stomaco deve imparare a prendere coscienza dei propri sentimenti, a elaborare consapevolmente i conflitti e a digerire consapevolmente le proprie emozioni e sensazioni. Chi soffre di bruciori di stomaco, oltre a segnalare una forma di aggressività più o meno latente, può avere una sensazione di costrizione a fare qualcosa contro la sua volontà, non si sente libero di essere com’è, sta vivendo una situazione in cui si sente invaso, o vuole tenere completamente tutto sotto controllo e, non essendo in grado di farlo, si sente stressato. In questo modo la tensione crea rabbia, quest’ultima bloccata e trattenuta dentro “esplode” all’interno dello stomaco bruciandolo: sintomo di un’emozione inespressa che ribolle e demolisce internamente. È necessario quindi, attraverso il supporto di uno psicologo, esternare questi vissuti inespressi: di certo non basta sfogare la rabbia prendendo a calci un secchio della spazzatura per strada: questo espediente è ben poco liberatorio se non si comprende da dove questa rabbia scaturisce. Solo rendendosi conto da dove e perché arriva, allora la rabbia potrà essere canalizzata in modo più costruttivo e consapevole, in una sorta i sublimazione cosciente.
DOTT.SSA CHIARA PICA