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Il rapporto medico paziente nei disturbi psicosomatici la necessità d’interventi educativi per i medici di base

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Il campo della psicosomatica è attualmente in sviluppo perché ritenuto un aspetto emergente delle politiche sanitarie. Studi sull’argomento riferiscono chiaramente che la maggior parte dei pazienti che afferiscono agli ambulatori dei medici di base si possono definire come soggetti che soffrono di medically unexplained symptoms, ovvero sintomi non spiegabili da un punto di vista medico. Si tratta di disturbi di vario genere che comprendono la sindrome del colon irritabile, la sindrome da fatica cronica, la fibromialgia, la dispepsia e per i quali nella maggioranza dei casi non si riesce a trovare nessuna plausibile spiegazione medica, data anche la mancanza di segni organici evidenti. Tuttavia si è visto che anche in malattie con chiari segni organici, come la rettocolite ulcerosa, nella quale si evidenziano lesioni della mucosa intestinale a esame colonscopico, il peso dei fattori psicologici può influenzare pesantemente l’esordio, il decorso e la prognosi della malattia.

Il dibattito sui disturbi psicosomatici è aperto dagli anni cinquanta quando si è cominciato a ipotizzare che i fattori psicologici potessero influenzare direttamente una malattia somatica. Da allora a oggi si sono fatti notevoli progressi nel definire qual è il peso relativo dei fattori psicologici e dei fattori biologici nell’influenzare una condizione medica, abbandonando progressivamente le ipotesi di causalità diretta del modello biomedico (secondo cui esiste causalità diretta tra i fattori biologici e un esito somatico) o di quello psicogenetico(secondo cui esiste causalità diretta tra fattori psicologici e malattia fisica), e arrivando a modelli sempre più multifattoriali e integrati come il modello biopsicosociale di Engel. Questo modello sostiene che non esiste un solo fattore psicologico o biologico che è sempre presente in una malattia somatica al punto tale da sostenere che esso sia una sua causa diretta, bensì ci sono fattori che con una maggiore probabilità possono influenzare quella data condizione medica legandosi in vari modi ad altrettanti fattori che non sono solo psicologici ma anche sociali, familiari, ambientali e biologici. Inoltre i fattori che influenzano una malattia non sono uguali per tutte le persone con quella malattia: ad esempio non è detto che un paziente con colon irritabile presenti le stesse caratteristiche di un altro paziente con la stessa malattia: ogni caso è peculiare e in ogni persona gli stessi fattori potrebbero presentarsi con diversi tipi d’interazione rispetto a un’altra.

Uno dei problemi spinosi nell’ambito della psicosomatica è la gestione del paziente. La difficoltà sta proprio nell’individuare qual è il peso relativo dei vari fattori in gioco. Generalmente, tuttavia, una persona che soffre di un qualsiasi disturbo somatico si rivolge in primis al proprio medico di base. Al momento della visita dal medico si inizia a creare subito la prima difficoltà dovuta al diverso codice linguistico utilizzato per definire la malattia. Per il medico un paziente che lamenta bruciore di stomaco è solo una persona che ha bisogno di essere trattata con antiacidi, ma al tempo stesso se il paziente si mostra agitato e insiste di avere “qualcosa che non va” allora gli si dice che “sarà lo stress, sarà l’ansia, è tutto nella sua testa”. Un’affermazione del genere fa sentire il paziente non compreso, non ascoltato e delegittimato dal suo status di malato, non preso sul serio e sminuito nel suo dolore. La descrizione dettagliatissima che in genere questi soggetti fanno dei loro sintomi fa sentire il medico legittimato a intervenire solo ed esclusivamente sul piano somatico, anche se percepisce che dietro c’è dell’altro. In genere però, di fronte a questo altro che non sa ben riconoscere e affrontare, il medico alza le braccia e, impreparato ad affrontare il carico emotivo che sta dietro alla condizione somatica, liquida il paziente dicendogli che è “tutto nella sia testa”. In questi casi però, come abbiamo detto prima secondo il modello biopsicosociale, è ben difficile trovare un disturbo che sia solo ed esclusivamente causato da fattori psicologici, perciò questa affermazione crea sicuramente rabbia nel paziente che in questo modo descriverà con ancora più insistenza i suoi sintomi somatici. Un soggetto che soffre di fibromialgia sente davvero dei dolori muscolari diffusi, non li immagina nella sua testa. Per lui quei sintomi sono una evidenza concreta che influenza pesantemente la qualità della vita e sentirsi dire che sono solo nella sua testa, che esagera, che è in ansia, sminuisce quel che egli prova. In questo caso, se anche il medico decidesse d’inviare la persona da uno psicologo, si troverebbe quasi sicuramente di fronte alla forte resistenza del paziente. È risaputo infatti che coloro che soffrono di disturbi psicosomatici non accettano sempre e volentieri l’idea di avere un problema psicologico che sostiene la malattia: ecco quindi che la mancanza di empatia da parte dei medici di base rende ancora più difficile per il paziente l’accettazione della possibilità di avere un problema irrisolto a livello psicologico.

I pazienti che soffrono di disturbi medically unexplained portano allo studio medico ben più dei loro sintomi somatici, anche se loro stessi non ne sono consapevoli nella maggior parte dei casi. Quel loro parlare in modo accorato e minuzioso dei loro sintomi e della disabilità quotidiana da essi causata è l’urlo silenzioso di una condizione emotiva che viene nella maggior parte dei casi ignorata e che renderebbe più facile la gestione del paziente se invece venisse riconosciuta. Non si sostiene qui che il medico debba essere anche psicologo, ma certamente dovrebbe avere una diversa impostazione e delle abilità di counseling e ascolto empatico che lo porti a vedere il soggetto non solo come un insieme di sintomi fisici che spesso sembrano non avere una logica, ma anche come una persona sofferente che porta un carico di emozioni che vanno ascoltate e comprese. Se il paziente si sentisse compreso, accettato e ascoltato di sicuro migliorerebbe la compliance e l’alleanza terapeutica e sarebbe forse più facile aprire in lui quello spiraglio verso il proprio mondo interiore che non solo aiuterebbe a rendere più accettabile un possibile invio da uno psicologo o da un counselor, ma che renderebbe in lui più probabile una riflessione che lo porti a capire che quei sintomi che egli avverte potrebbero nascondere un disagio che ha bisogno di essere riconosciuto dal paziente stesso.

Sarebbe auspicabile che i medici di base fossero oggetto d’interventi educativi in cui venissero loro fornite delle abilità di counseling per poter decifrare i messaggi che il paziente invia al momento in cui descrive i suoi sintomi. Si potrebbe ipotizzare un progetto educativo che coinvolga i medici di base proprio per il fatto che si tratta delle prime figure a cui in genere si rivolgono coloro che avvertono sintomi fisici. Innanzitutto è importante che il medico conosca le tecniche dell’ascolto attivo: in genere il medico ha molti pazienti da visitare durante la giornata e tende a non prestare la dovuta attenzione al racconto che la persona fa della sua condizione somatica. Sappiamo quanto è importante la narrazione, quanto essa fa sì che i contenuti fattuali e interiori del paziente siano inseriti in una cornice di significato che andrebbe correttamente decifrata. In genere invece il medico si sforza poco di decifrare questi significati, limitandosi al solo contenuto. Inoltre la relazione medico-paziente è fondamentalmente asimmetrica, il medico è colui che dirige la visita, fa le domande, soprattutto domande “chiuse” che non permettono al paziente di raccontare le cose come vorrebbe. In questo modo non si permette al paziente di entrare in relazione col medico, e sappiamo che non esiste comprensione empatica delle emozioni se non all’interno di una relazione. Quel che dunque il medico coglie della conversazione col paziente è solo la descrizione della sintomatologia, mentre ignora il vissuto che anima e sta dietro a ciò che racconta il paziente. Le persone che soffrono di disturbi psicosomatici si rivolgono spesso a figure esterne all’ambito degli altri significativi, come i familiari e gli amici, nella speranza di essere compresi e ascoltati nel loro carico di sofferenza, carico che proprio gli altri significativi tendono a non vedere. Per questo è fondamentale che il medico di base sia addestrato a cogliere questi segnali. Parte integrante dell’ascolto attivo è la riformulazione delle parole del paziente: questo per far sì che gli possa rimandare il messaggio che sta sotto al suo racconto, facendolo sentire così compreso nel suo dolore e dandogli anche la possibilità di far venire alla luce emozioni che spesso il paziente non è consapevole di avere. Attivando la riflessione su queste emozioni si dà così alla persona la possibilità di riflettere su di esse e trovare dei nessi con i sintomi somatici avvertiti. È bene quindi che il medico abbandoni una impostazione direttiva, sbrigativa e autoritaria nei confronti del paziente: egli dev’essere incoraggiato a divenire parte attiva della relazione e non a sentirsi in una posizione di sottomissione nei confronti del medico. È ciò che Rogers chiama formulazione cosciente del contenuto emotivo, formulazione che avviene se la persona che abbiamo davanti si pone come specchio attraverso cui potersi osservare con occhi diversi da quelli che utilizziamo solitamente. Sappiamo che coloro che soffrono di disturbi psicosomatici affidano al corpo l’espressione di drammi interiori di cui non conoscono l’esistenza, e tendono quindi a raccontare al medico solo ciò che concerne i sintomi concreti che avvertono, unico segno tangibile del loro dolore; per questo è fondamentale che il medico non si soffermi esclusivamente sul piano somatico ma cerchi di condurre il paziente verso una dimensione interiore di riconoscimento emotivo. Non serve limitarsi a prescrivere farmaci ed esami diagnostici, è necessario andare a un piano superiore d’intervento: è necessario sia tenere conto dell’effettività dei sintomi del paziente, fornendo spiegazioni, indicazioni terapeutiche e comportamentali e indagini mediche qualora servano a capire meglio, ma senza soffermarsi solo sul piano somatico prescrivendo farmaci ed esami inutili e a volte anche controproducenti e dannosi. È necessario che il medico non ceda alle insistenti richieste del paziente di prescrivergli farmaci ed esami diagnostici, bensì deve pian piano condurlo a comprendere che egli ha affidato al corpo il compito di esprimere le emozioni dolorose. È tuttavia un passaggio che deve avvenire gradualmente, e che deve necessariamente passare prima dall’accettazione del paziente in quanto tale, del rispetto per ciò che porta in ambulatorio, per l’empatia verso ciò che esprime, in sostanza per ciò che il counseling definisce come amore verso la persona che abbiamo davanti.

DOTT.SSA CHIARA PICA

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