Il valore evolutivo del disagio come via verso se stessi

Noi esseri umani comuni abbiamo un’ostilità profonda verso tutto ciò che ha a che fare col dolore: ferite interiori, lutti, difficoltà, problemi, disagi esistenziali o disturbi fisici.

La società delle pillole ci ha abituato a trovare facili soluzioni a tutto, a scansare lo stress, ad allontanare l’ansia, a mettere a tacere le voci del profondo.

La società dell’efficienza e dell’immagine ci ha abituati al fatto che dobbiamo essere per forza brillanti, funzionanti, dobbiamo nascondere le emozioni sgradevoli, dobbiamo mostrarci perennemente sorridenti anche quando non ne abbiamo affatto voglia.

Tutto questo ci abitua a due cose molto negative per l’anima:

Indossare delle sterili e vuote maschere alle quali alla fine ci si abitua come fossero i nostri veri volti, al punto che non abbiamo più idea di chi siamo realmente

Vedere i problemi, le difficoltà, le emozioni negative come qualcosa di inquietante da scacciare via ad ogni costo, come un qualcosa che non ha alcun diritto ad avere spazio dentro di noi.

Eppure tutte queste cose che cerchiamo di scacciare sono fondamentali per raggiungere il nostro equilibrio e la nostra completezza come persone.

Freud dice che senza di esse non può esistere integrazione della nostra personalità.

Jung sulla stessa linea afferma che “Nella caduta ci sono già i germogli della risalita, fragili ma verdi. Vanno coltivati con premura”.

Cosa volevano dire Freud e Jung con questo?
Volevano dire che le sofferenze, gli ostacoli, i problemi, sono necessari a far emergere tutto ciò che siamo davvero, per mettere in moto quel potenziale presente ma dormiente dentro di noi, per ripulire il nostro viso da tutte quelle maschere che non ci appartengono e far così emergere la nostra immagine vera. E non solo le ovvie e pratiche difficoltà della vita: parlo principalmente dei disagi esistenziali, parlo di ansia, panico, depressione, somatizzazioni: la malattia dev’essere spogliata degli attributi negativi che gli diamo, ovvero un qualcosa che va estirpato a ogni costo.

La malattia dev’essere vista nella sua vera veste, ovvero quella di messaggio dal profondo che ci invita a rivedere qualcosa di noi. Solo così e solo allora la malattia se ne potrà andare. Perché è questo che rappresentano veramente questi disturbi: messaggi dal profondo, ovvero da quella parte più autentica e sapiente di noi che sa dove dobbiamo andare per evolvere. Bisogna capovolgere e destrutturare lo schema di pensiero convenzionale che vede le difficoltà e i problemi come qualcosa da allontanare a tutti i costi e al più presto possibile: ogni problema, ogni difficoltà, ogni sintomi somatico o psichico, arrivano per una ragione. Rappresentano un’occasione, un’opportunità che la vita ci mette di fronte per andare oltre i nostri limiti, per crescere ed evolversi sotto diversi aspetti. Se non lo capiremo in un modo, lo dovremo capire più avanti, magari in modi molto più bruschi.

Secondo Nietzsche gli ostacoli non vengono a caso nella nostra vita. Senza le difficoltà rischiamo di non poter procedere lungo il cammino della vita perché esse vengono proprio affinché il nostro nucleo interiore possa svilupparsi e dare compimento a sé stesso. E, che a noi piaccia o meno, l’anima andrà sempre alla ricerca di queste difficoltà, perciò se noi le scacciamo, esse torneranno sotto un’altra forma, solitamente sempre più intensa. Come a dire “se non l’hai intesa in quel modo, la intenderai così”.

Se leggiamo alcuni scritti di Jung tra cui a tal proposito il più famoso è quello della sincronicità, vediamo che nella nostra vita nulla avviene a caso.

L’anima infatti tende per sua natura alla completezza, alla sua realizzazione: laddove noi non realizziamo noi stessi ecco che l’anima, ovvero il nostro Sè interiore, ci manda la difficoltà, il disturbo, il problema, l’ansia, il panico per farci capire dov’è che stiamo sbagliando e proporci una via di miglioramento. Infatti laddove noi ci siamo infognati in un modo di essere che non ci appartiene non permettiamo al nostro Sè di espandersi ed ecco che allora “attiriamo” a noi quegli ostacoli, quelle difficoltà che possono permetterci di mobilitare proprio quelle parti di noi che abbiamo da qualche parte dimenticato.

E allora, date le considerazioni di cui sopra, perché non la smettiamo di scacciare ciò che, se è venuto a trovarci, non lo ha fatto per caso o per capriccio ma per un motivo preciso?

Ecco che, per scacciare le difficoltà, le facciamo tornare più avanti ancora più agguerrite di prima. E così cominciamo a darci pena di controllare la nostra vita, di evitare questa e quella cosa perché chissà, insomma basiamo la nostra vita sul controllo e sulla fuga: modalità disfunzionali di essere nel mondo che servono solo ad allontanarci dalla nostra essenza che per sua natura è mutevole, incontrollabile e in perenne evoluzione.

In natura c’è qualcosa che è sempre uguale a sé stessa? No, anche le rocce delle dolomiti sono soggette a erosione e mutamento, nulla, anche ciò che sembra più statico, in realtà muta sempre.

La natura dell’anima è analoga. Eh ma così rischio di sbagliare. Oh certamente, ma senza rischio non c’è cambiamento e dunque non c’è evoluzione. E ciò che non evolve muore: ed ecco quindi la paura di morire dell’ipocondriaco. La paura di morire, che spesso prende la forma di ossessioni ipocondriache, è in realtà paura di vivere: ovvero. È un messaggio che viene dalle nostre recondite profondità, che ci avverte che noi non stiamo vivendo in modo autentico, in un modo che ci rappresenta davvero.

E cosa succede quanto non viviamo appieno la nostra vita con la consapevolezza che siamo esseri soggetti alla morte? Finiamo per vedere la fine come una condanna senza appello, sentiamo che potremmo avere poco tempo per realizzare noi stessi. Ecco dunque che il terrore della morte e l’ipocondria vengono a dirci che dobbiamo vivere, ADESSO, ovvero nell’unico vero tempo che abbiamo a disposizione. E che, dunque, la paura di correre il rischio di vivere deve diventare ben inferiore della paura di morire, perché se viviamo appieno ogni giorno non temeremo più la morte: sapremo, in ogni caso, di aver vissuto.

Il rischio del cambiamento è ineliminabile dalla propria vita. chi va dallo psicologo credendo di essere messo al sicuro dal rischio ha sbagliato portone: dallo psicologo si va per guardare in faccia le profondità del nostro essere, per guardare in faccia i messaggi profondi dell’anima che premono per essere ascoltati. Non ci si va sperando che ci metta al sicuro da essi, o sarà un ulteriore fallimento nell’evoluzione.

E cos’è la terapia psicologica se non un viaggio dantesco nell’inferno? Un viaggio in cui però non siamo soli, perché il buon Virgilio-Terapeuta sarà con noi. Così andremo dai recessi dell’inconscio, agli elementi trasformati del Purgatorio per accedere al Sé pieno e compiuto del Paradiso. La terapia darà voce al dolore incomprensibile dei dannati dell’inferno e renderà dotata di senso la propria sofferenza in modo che da essa si possa attingere creativamente verso l’evoluzione. Si lavora autobiograficamente ripercorrendo la vita del paziente ridando a questa storia un sapore diverso, un senso perduto, o forse mai visto

Mi vorrei soffermare sull’evocativa immagine di Bousquet che dice “cadi per divenire la mano che ti trattiene”: in questa immagine è racchiuso quindi gran parte del senso spiegato in questo articolo. I dolori, i problemi, le difficoltà, i sintomi racchiudono in essi in potenza la possibilità di trasformarsi in risorsa. Posto che non cerchiamo di scacciarli.

Può un bambino crescere senza le sue frustrazioni, rinunce, ostacoli? No, e infatti oggigiorno assistiamo a tanta adolescenza fragile perché a suo tempo non ha ricevuto sufficienti NO, ovvero le frustrazioni adeguate all’età, i limiti, le regole.

E così i disturbi, le difficoltà si presentano come un terremoto che sconvolge i nostri (falsi) equilibri ma come la torre dei tarocchi può permettere di rinascere da quel crollo, come la fenice risorge dalle sue ceneri. Non si può rinascere senza morire a sé stessi ed è proprio questa la funzione dell’irruenza dei disturbi, dei disagi: turbano i nostri falsi equilibri costringendoci a capire che non stavamo vivendo davvero. Se poi vogliamo caparbiamente continuare su quella strada non ci possiamo poi lamentare che non guariamo. A quel punto nessun Virgilio potrà mai aiutarvi se non siete disposti a cambiare realmente. Se anche lì per lì non troviamo senso a tanto sconvolgimento dobbiamo smettere di fuggire per trovarlo: il senso si cerca calandosi in modo meditativo nel disagio, non in fuga come un treno impazzito senza conducente. È quella Presenza Mentale Consapevole che la Mindfullness ci illustra. Se facciamo della fuga dal male il nostro modus vivendi non faremo altro che tradire noi stessi giorno dopo giorno, rendendo ogni volta più difficile un cambiamento che, in un modo o nell’altro, vuoi con un disagio o con un atro, l’anima ci metterà davanti come essenziale. Il panico, l’ansia, che ci fanno fermare nella nostra quotidianità ci obbligano a quella necessaria battuta d’arresto che ci vuole dire “rivolgiti all’interno, solo lì troverai risposte, lascia le finte certezze della tua vita, non sono autentiche”. Quando arrivano i disagi dunque bisogna smettere di fuggirli, bisogna solo osservarli: lasciar andare i giudizi, le idee preconcette, le critiche, i ragionamenti sterili su cosa è giusto e sbagliato (ma per chi??): bisogna solo accogliere il disagio, come uno sconosciuto che è venuto a trovarci e che ha da dirci qualcosa: bisogna fare spazio allo sconosciuto che arriva facendo buio attorno a noi, quel buio in cui le cose germogliano come il seme nella terra.

In sostanza dobbiamo lasciar andare un personaggio che non ci appartiene, le maschere di cui dicevo sopra: identità fasulle instillate dalla famiglia, dalla società, strade che non ci appartengono, modi di essere che non si confanno al nostro vero Sé ma che continuiamo a recitare come automi cercando continue conferme di quel finto modo di essere. E, la cosa interessante, è che finché non rischiamo, non ci sperimentiamo in altri ruoli e modi, non troveremo mai smentite, e quelle poche che la vita ci offre facciamo finta che non esistano. Solo mettendo da parte le nostre finte certezze possiamo rinascere, e questo lo insegna anche il Taoismo cinese.

Viviamo perennemente nel passato, attaccati, come cozze allo scoglio o un koala all’albero, al passato che ci ha fatto essere come siamo: ma il passato cosa è se non un non-tempo? Il fatto che l’educazione, le esperienze, ci hanno messo addosso una identità che non ci appartiene significa forse che dobbiamo continuare a portarla come una zavorra ingombrante? Il fatto che un astronauta abbia vissuto 6 mesi nella ISS implica che quando torna deve continuare a tenersi addosso lo scafandro anche laddove non serve più? Così come certe cose ci sono state messe dentro, così le possiamo estirpare: fare come le piante in autunno, morire apparentemente per risorgere a primavera.

DOTT.SSA CHIARA PICA

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