La madre castrante e la difficoltà di amare

In questo scritto voglio spiegare come un rapporto conflittuale del figlio maschio con la madre possa portare in esso una corrispondente difficoltà nell’instaurare rapporti adulti e maturi con una donna, ovvero incentrati sull’amore e non solo sull’innamoramento, l’infatuazione, l’appagamento sessuale e del proprio ego narcisistico.

Dalla letteratura sul rapporto madre bambino, a cominciare da Bowlby, abbiamo appreso che la madre che sa creare una base sicura, una “madre sufficientemente buona”, per dirla con Winnicott, è la madre che sa emancipare il figlio, che costruisce i suoi modelli operativi interni (MOI) basati sulla fiducia, sulla presenza discreta, sulla capacità di fornire radici ma anche ali. Sulla scorta di tali MOI il bambino imparerà ad avere fiducia in sé stesso e anche nella madre, imparerà a comprendere che egli esiste come essere separato da lei ma che potrà comunque farvi affidamento nel momento del bisogno. La madre divorante, castrante, simbiotica, è invece tutto l’opposto della madre buona ed emancipante. Questue due figure sono due archetipi che ricorrono con frequenza nell’inconscio collettivo dei popoli, e le ritroviamo nei miti e nelle fiabe sottoforma di strega, mostro, drago, la donna-vampiro, l’arpia ecc. Ma, oltre a risiedere nell’inconscio collettivo, questa madre risiede anche nell’inconscio personale di tutti quei figli maschi dai quali essa non si è mai realmente voluta separare, fagocitandoli. Questa madre, infatti, non è la buona madre che dona libertà al figlio, essa prende da esso, succhia il sangue, ne ha bisogno in modo quasi ossessivo e viscerale: e così facendo fagocita il nascente sé del bambino. L’amore vero, difatti, è una relazione liberante: proprio per questo oggi assistiamo a tanti amori malati, perché l’amore, quello vero, è una relaziona che dona radici ma anche ali, è liberante, dona respiro al sé. Gli amori di queste madri, così come i falsi amori di tante coppie di oggi, sono invece amori castranti, bloccanti: imprigionano dentro uno spazio angusto, costringono la persona “amata” a vedere solo quell’orizzonte che l’altro è disposto a dare, ma capiamo bene qui che questo è un donare falso, perché in realtà si tratta di un prendere: chi “dona” una visione parziale del mondo all’altro, si serve di lui per confermare sé stesso egoisticamente e narcisisticamente. Chi ama realmente invece mostra il mondo in tutta la sua ampiezza, anche a costo di perdere la persona amata, il figlio amato, che magari sceglie un altro orizzonte per sé stesso, invece che quello scelto da altri per lui. Mi viene a mente a tal proposito lo scempio di tanti figli che inseguono il sogno del genitore per la sua vita, piuttosto che il loro sogno personale. È così inevitabilmente aperta a queste menti la via della nevrosi, o prima o dopo, quando la vita mette di fronte a inevitabili crisi. Vediamo quindi come la relazione con la madre sia il corrispettivo delle altre relazioni affettive che saranno vissute in futuro: vivere bene la prima e fondamentale relazione sarà quindi basilare per far si che un figlio possa vivere realmente bene la sua relazione di coppia futura.

Quali sono quindi le madri castranti? Esse sono le madri iperprotettive, inibenti, ansiogene, preoccupate, simbiotiche. Quelle che vedono il figlio come un eterno bambino anche se è già adulto, spesso riferendosi a lui con vezzeggiativi tipici di una relazione infantile. Sono in genere madri che hanno bisogno che il figlio segua la loro visione del mondo e delle cose: hanno già in mente tutto il loro futuro dispiegato in un attimo, sono costantemente in ansia anche se il figlio sta semplicemente facendo il suo mestiere di figlio, ovvero esprimere la sua turbolenza infantile, fare dispetti, disubbidire. Le sfumature possono andare dalla freddezza della madre-soldato, alla fusionalità della madre simbiotica, ma in ogni caso abbiamo a che fare con relazioni malate e castranti. La madre simbiotica, in particolare, ha bisogno del contatto fisico con il figlio, gli piace stropicciarlo, baciarlo, averlo per sé: ma un contatto così esasperato non è mai un reale istinto di donazione: è un modo per fagocitare, prendere, succhiare l’anima del figlio per farla tutta sua. Stiamo qui fornendo un ritratto di madre castrante-tipo, genericamente parlando, ma è evidente che vi sono varie tipologie che potrebbero essere validamente esplorate. Così come, ovviamente, esistono diversi temperamenti del figlio che andranno a interagire con la relativa tipologia di madre: gli esiti possono essere variegati, ma per citarne alcuni possiamo riferirci a: il figlio ribelle e disorientato; il figlio “castrato” incapace di vivere la sua sessualità con una donna e che potrebbe sfociare in impotenza od omosessualità; il figlio “simbiotico” ovvero colui che ricercherà la mamma e il suo livello di fusionalità in una futura relazione di coppia; il figlio “mentale” ovvero totalmente rivolto alla sfera della ratio, in cui non è avvenuta una integrazione tra la parte maschile e femminile, che Jung definisce rispettivamente “Animus” e “Anima”.

Deriva da ciò una inevitabile distorsione dell’amore e del rapporto di coppia, che può andare da totale incapacità di viverlo, come nel caso degli impotenti/inibiti, alla disorganizzazione affettiva del figlio disorientato che rischia di ricercare in altre attività la sublimazione di un amore mai ricevuto; andando poi per la dipendenza del figlio simbiotico, che vedrà nelle relazioni sentimentali un qualcosa a cui aggrapparsi come al cordone ombelicale da cui ricevere nutrimento; per arrivare al distacco del figlio mentale, che vive i rapporti sentimentali in modo totalmente razionale, che ha una concezione del mondo razionale. Sono questi tutti stili di difesa derivanti dal rapporto malato con la madre castrante: in tutti i casi la corretta integrazione del sé non è avvenuta, mancano delle parti, non si è liberi di essere, perché si è imprigionati nella rete della madre invischiante. Di fatto essa ha ristretto gli orizzonti vitali del figlio, il quale non sarà mai veramente adulto in quanto ricerca ancora quell’appagamento materno “sano” che non ha mai avuto, quell’amore liberante che non ha mai sperimentato. Vediamo spesso degli eterni bambini in questi uomini non cresciuti, che hanno paura di assumersi responsabilità adulte, che rifuggono da una relazione seria perché ancora sono bambini disorientati alla ricerca dell’abbraccio liberante della madre. Perché i troppi baci della madre simbiotica non donano libertà, la tolgono. Essi identificheranno l’amore, a livello conscio, con quello che la loro madre gli ha donato: se gli ha donato una prigione vedranno nell’amore una prigione da cui fuggire, vedranno nella donna quella stessa madre-vampira, madre-carceriera, che ti butta dentro una gabbia e butta via la chiave. Nessuna relazione futura sarà per loro veramente liberante se non si esporranno al rischio di soffrire, riaprendo così la vecchia ferita di quell’amore non ricevuto. La ferita va richiusa, ma visto che indietro nel tempo è impossibile tornare, è necessario esporsi nel presente al rischio della delusione narcisistica: se questo non succede rimarrà divorato dalla madre e perennemente un figlio la cui capacità di rapporto è fissata all’incubo della dipendenza infantile.

Quando supera le passate ferite del rapporto con una madre simbiotica e invadente, l’uomo è libero di sviluppare il lato femminile della sua natura, che Jung ha definito Anima. Essa mette l’uomo in contatto con i suoi lati più profondi. Solo così l’uomo potrà stabilire un rapporto maturo con una donna: fintantoché ciò non avverrà si avrà o una fuga dal mondo delle responsabilità adulte, ovvero un rifugiarsi nel mondo dei balocchi e della spensieratezza adolescenziale anche a età in cui ciò è oramai fuori luogo, o, addirittura, nei casi più gravi, una totale incapacità di avere rapporti sani con le donne, vissute o come autentiche castratrici (come lo è stata la propria madre), o come esseri pericolosi sempre pronti a fare un tiro mancino, quindi da usare solo in senso narcisistico, di appagamento sessuale e del proprio ego. È proprio così che alcuni uomini si sottraggono alla loro madre-drago (madre divorante): si costruiscono una specie di regno solo maschile, solo mentale, razionale, difeso e sicuro, dove le madri non possono seguirli. E rifiutano il lato femminile, intuitivo, romantico e un po’ irrazionale, per la paura di essere sopraffatti dalla madre-drago… un drago che preferiranno continuare a combattere magari nei loro giochi, piuttosto che affrontare davvero il drago crescendo e reintegrando il lato femminile nel loro sé. Del resto, come il mito di Edipo ci dice, non è affatto sufficiente un atteggiamento intellettuale, tipicamente maschile, per sconfiggere il potere divorante dell’archetipo della madre castrante. La lotta deve essere condotta attraverso la vita, l’integrazione delle parti, maschile e femminile, razionalità e intuizione, sentimento e ragione. L’uomo che non ha sviluppato la sua parte femminile infatti, è generalmente narcisistico: è innamorato della sua idea di amore, delle sue fantasie, del suo eros, della sua capacità di dare piacere erotico, ma non sa amare nel senso adulto del termine, che invece implica la capacità di esporsi alla vulnerabilità del rischio e della ferita narcisistica. L’amore non è quello distorto ricevuto dalla relazione con la madre, ma deve divenire una relazione che dona radici e ali, dove non esistono ristretti orizzonti, non esistono gabbie, bensì un donare una visione autentica del mondo pur correndo il rischio di perdere la persona amata: nessuna madre, del resto, che non sappia concedersi il rischio di perdere il figlio, potrà mai affermare di averlo amato davvero.

DOTT.SSA CHIARA PICA

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