La paura della solitudine

Solitudine … abbandono … distacco … vuoto … quattro parole che da sole sono capaci di risvegliare i nostri timori più reconditi e profondi.

Ma da cosa nasce una paura così forte e pervasiva?

Intanto c’è da dire che essa è ben radicata come archetipo nell’inconscio collettivo: il nostro predecessore primitivo, qualora rimanesse isolato dalla comunità, dalla tribù, dal clan, era destinato a morire se non era abbastanza forte per cavarsela da solo: le minacce erano quelle ben concrete di essere ucciso da qualche animale feroce, di trovarsi senza sostentamento e aiuto. Una notte da soli poteva essere terrificante, e non a caso la notte era il momento in cui tutti stavano per raccolti attorno a un fuoco da campo per tenere lontani gli animali predatori. Questi timori sono rimasti ben segnati dentro l’inconscio collettivo dell’essere umano: attualmente i pericoli non sono certo bestie feroci e animali predatori, scarsità di viveri e sostentamento, bensì paure più sottili anche se non per questo meno invalidanti: l’uomo moderno è molto più “solo” di quanto lo fosse un tempo: non esistono più famiglie numerose che vivono tutte nello stesso palazzo o casa colonica, molte reti si sono sfaldate, i genitori spesso vivono lontani o i rapporti con loro sono difficili e/o conflittuali; il welfare non aiuta minimamente, se non sei abbiente sei fuori dal mondo, la crisi economica rende tutto precario e la “rete” coi suoi sociale network porta molti più rapporti virtuali che non reali, laddove possiamo avere anche 300 amici su facebook ma ben pochi nella realtà. In un contesto così frammentato e disgregato l’essere umano si trova a specchiarsi con un grande senso di solitudine esistenziale. Ma allora.

In un mondo così precario, l’individuo è destinato ad andare alla deriva? La risposta è NO.

Pur tuttavia il processo che porta a uscire da questo trip non è facile né esente da dolori e difficoltà: la salvezza è la presa di coscienza di sé, la centratura in sé stessi e quindi la capacità di sviluppare resilienza.

Ma andiamo per gradi. Come si struttura la fiducia in sé stessi negli individui? Grazie a un rapporto definito “base sicura” tra madre e bambino. Ma a me piace andare oltre al mero discorso madre-figlio, come se il padre non fosse coinvolto in tutto questo. ne è coinvolto eccome, anzi, grandemente! Chiaro è che il primo rapporto fondamentale, matrice di ogni relazione successiva, è quello con la madre. Una madre “sufficientemente buona”, come diceva Winnicott, non PERFETTA!

Letture varie di psicologia stanno portando grosse ansia da prestazione nelle madri che quasi non si sentono più in diritto di sbagliare. Ma il punto è che non è necessario essere perfette , bensì: saper dare calore affettivo; saper dare TEMPO DI QUALITA’ e non di mera QUANTITA’: condividere spazi relazionali empatici dove fare da specchio alle emozioni del bambino, dimodochè egli possa via via conoscere sé stesso; e lo può fare giocando, raccontando storie, disegnando ecc; vivere non solo nel ruolo di madre ma anche in quello di lavoratrice, donna che coltiva passioni, che ama la vita e trasmette questo amore. Se il bambino si sente accolto in tal senso riuscirà a sviluppare una buona “fiducia di base” che gli permetterà di vivere bene il distacco dalla madre che avviene nel fatidico periodo della cosiddetta “angoscia dell’ottavo mese”, quando comincia a prendere atto della sua natura di essere separato dalla madre. Ma se la madre è stata per lui una base sicura questo distacco avverrà senza eccessivi traumi. Se il processo della fiducia continua, se anche il padre si costituisce come figura-chiave complementare alla madre, se al bambino viene via via insegnato a seguire ciò che ama, a scoprire la sua natura, a fare ciò che lo aggrada, di certo svilupperà un “senso del sé” tale per cui potrà avere quella “resilienza” necessaria ad affrontare gli inevitabili dolori e difficoltà della vita.

E cosa accade invece a tutti coloro che non sviluppano questo “senso del sé”? Innanzitutto chiediamoci perché non lo sviluppano. Possiamo avere un numero notevole di spiegazioni fondanti: · Genitori che vogliono il figlio come aggrada loro piuttosto che far emergere la natura propria del figlio · Genitori assenti e centrati solo su sé stessi, incapaci quindi di dare limiti e regole che strutturino l’inevitabile “tolleranza alla frustrazione” · Genitori al contrario iperprotettivi, ansiosi, che tengono i figli sotto campane di vetro per paura che possa accadergli chissà cosa e non permettendogli così di affrontare la vita, di commettere sbagli che fanno crescere, oppure eccessivamente complimentosi, eccessivamente affettivi, pieni di vezzeggi e tendenti a far sentire la figlia la “principessina” di casa e il maschio il “principino”. · Genitori autoritari, legati solo al rispetto di rigide regole, spesso imposte senza spiegazione alcuna e senza alcuna affettività, quindi despoti e ipercritici · Genitori anaffettivi, incapaci di dare accoglimento, gratifiche, avvolgimento corporeo, abbracci, carezze Questi sono solo degli esempi ma ne deriva che i figli di questi genitori potranno essere: · Ansiosi e timorosi di affrontare la vita, eterni bambini che non vogliono crescere · Mancanti di un nucleo saldo del Sé e quindi incapaci di affrontare con tenacia le sfide della vita · Timorosi della solitudine, dell’abbandono, della morte, della malattia e tendenti a sviluppare relazioni di coppia compensatorie di quella relazione genitoriale malandata che hanno esperito In sostanza si sviluppa un modello del mondo come pericoloso, irto di difficoltà e di sé stessi come incapaci di affrontarle ma soprattutto di FARCELA DA SOLI, di camminare con le proprie gambe. Si arriva a credere di non essere in grado di badare a sé stessi, al punto da doversi sempre appoggiare a una relazione che, magari non funziona, ma che ci serve per sopravvivere. Incapaci di affrontare l’esistenza ci si arrendere a una vita mediocre, in cui si appiattisce sé stessi, ci si trascina stancamente giorno per giorno finanche a somatizzare il disagio a livello somatico. E come se ne esce? Intanto rendendosi conto che quando nella nostra vita siamo abituati a esperire un solo modello del mondo, quando ci siamo abituati ad interagire solo con quello, finiamo per temere tutto ciò che lo contraddice, che lo può mettere in discussione e finiamo per credere che sia l’unico possibile per noi.

E anche se la nostra natura profonda ci spingerebbe in quella direzione ecco che la parte difesa di noi fa resistenza. E’ proprio questo che ci fa ammalare psicologicamente, il tentare a tutti i costi di resistere al progetto esistenziale che è insito nel nostro seme. Rimanendo dentro il recito sicuro di ciò che conosciamo e a cui siamo abituati non ci permette di sperimentarci in altri ruolo e così ci autolimiteremo dicendo “non ci posso riuscire”, “non è per me” e altre credenze autosabotanti. Avere il coraggio di rompere le sbarre e mettersi alla prova è la nostra unica via di salvezza. Bisogna rendersi conto che non ci manca nulla per potercela fare da soli. Quella che gli altri ci supportano è un’illusione, un autoinganno. Noi ce la facciamo sempre da soli, solo che crediamo di aver bisogno degli altri e allora ci convinciamo di questa illusione. E’ come uno che ha gli arti inferiori funzionanti ma usa ancora le stampelle per camminare, perchè gli piace usarle e non esercita mai le sue gambe, perché sostanzialmente non le ha mai usate e ha paura di farlo. come diceva Jodorowskij “ Gli uccelli nati in gabbia pensano che volare sia una malattia”. Io aggiungo che di poter volare non ne hanno neanche la consapevolezza. Per loro quelle ali non significano nulla. Però attenzione: quello che conta è che quelle ali ci sono: bisogna solo imparare a usarle perché nessuno ce lo ha insegnato! E così, dentro di noi, ci sono le ali della libertà, dell’autonomia, della realizzazione di sé. E si manifestano già nel bambino piccolo che con tenacia e determinazione impara a camminare. Pensate a un bambino: piccolo, indifeso, sempre dipendente dagli altri. Eppure avete notato con che determinazione impara a camminare? Cade, cade e ricade un sacco di volte ma sempre si rialza.

Gli piace la vita, è curioso, la curiosità della scoperta muove le sue gambe contro ogni sconfitta: vuole prendere quel giocattolo, vuole raggiungere la mamma, inseguire il gatto, uscire nel giardino. A muoverlo è la spinta innata alla scoperta, all’autonomia, alla libertà. E queste stesse necessità, questa stessa forza, stanno dentro ognuno di noi: sono i condizionamenti successivi a farci dimenticare di averle: quel coraggio, quella determinazione, quella voglia di sperimentare ma soprattutto quella gran voglia di essere liberi e autonomi. Cosa cambia tra noi e un bambino? I condizionamenti ricevuti, i pensieri auto-depotenzianti, disfattisti (non ce la farò mai, non ci posso riuscire, è più forte di me), la paura del giudizio (cosa penseranno gli altri se fallisco). Se un bambino avesse gli stessi pensieri di un adulto camminerebbe ancora a 4 zampe, non saprebbe parlare, sarebbe un sottosviluppato. E non abbiamo noi molte più risorse di un bambino? Certo che si! Vediamo di riscoprirlo. Come? Mettendosi in gioco e smettendo di temere la vita. Non è che non va bene desiderare affetti: questo è un lecito desiderio, siamo esseri umani sociali e portati tra l’altro a legarsi in una relazione. Il punto sbagliato è desiderarli per bisogno e per compensazione, come un qualcosa di indispensabile senza cui non potremmo vivere. Gli altri possono arricchirci, non riempirci, è una cosa tanto diversa quanto sottile.

Perchè noi abbiamo , in quanto esseri umani, tutto quello che ci serve per stare bene. Nel nostro seme originario c’è già in potenza tutto quello che occorre per la nostra felicità su questa terra. E’ che spesso le circostanze in cui cresciamo non gli permettono di fiorire. Bisogna prendere atto che nel tentativo di attaccarsi a qualcuno per compensare c’è dietro il tentativo di recuperare quella relazione mancata con uno o entrambi i genitori. Il punto però è che, se cerchiamo fuori di noi ciò che invece dovremmo cercare dentro, resteremo dei mendicanti che si accontentano di briciole e avanzi. Ma non solo: è necessario prendere atto che, dietro a quel tentativo di trovare “la metà della mela”, l’ala mancante, come se fossimo metà incomplete di un tutto, tradisce in realtà, come parte ombra, proprio la presenza di un’altra parte che invece desidera autonomia e libertà pur temendola fortemente. E quindi la persona finisce per struggersi lottando contro le sue stesse tendenze evolutive. Se usiamo le relazioni come surrogati genitoriali finiremo per attaccarci come sanguisughe all’altro finendo però per restare poveri: abbiamo già noi ricchezza, la vita è dono, non prendere. E se non siamo già ricchi dentro cosa potremmo donare? Se tutti ragioniamo con la logica dell’arricchirsi tramite l’altro ecco che creiamo un mondo di poveri dentro: riscopriamo in noi la ricchezza e poi doniamola e saremo tutti più ricchi e felici. E allora come bisogna fare per far fiorire il seme dentro di noi, per scoprire il nostro Sé interiore? Come si fa con un seme di un giardino: ci prendiamo amorevolmente cura; lo innaffiamo; gli diamo concime; sole. Le cure sono l’amore verso noi stessi, l’acqua sono le attenzioni, il concime è il tempo e il sole è spazio.

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