Che bello il Natale! Luci, colori, vetrine innevate, immagini di babbo natale, bambini felici, voglia di ferie e regali…
Ma non per tutti è così: “Il Natale, a me, dà solo tristezza”.
“Tutto questo correre per i regali mi sembra solo un consumismo colossale che mi amareggia e basta”.
“Che senso di estraneità! Sembra un film: tutti felici, la città è piena di luci e io ho il gelo nel cuore…”.
“Mi sento così sola, a Natale. E’ come se tutto mi crollasse dentro…”.
Per molte persone, il Natale ha un altro volto. Non quello luccicoso e sorridente che ammicca dai negozi scintillanti e dalla pubblicità, ma quello amaro della solitudine, della tristezza, dell’amarezza, del dolore di vivere.
Queste persone al pensiero del Natale piombano in una sorta di malinconica tristezza, altri nell’ansia e nell’angoscia, altri ancora nella rabbia e in un atteggiamento irriverente.
Perché avviene questo?
Perché una festa che dovrebbe unire le persone e dare gioia porta invece questi sentimenti e queste emozioni negative?
Il natale porta con sé una strisciante e sottesa obbligatorietà alla felicità. Come se a Natale dovessimo fare finta di non avere tutta una serie di problemi che invece è lecito avere per il resto dell’anno. Ad alcune persone questa sembra una cosa terribilmente ipocrita e quindi ne avvertono repulsione. Inoltre subentra anche il senso di colpa per la mancanza di gioia perché ci si sente inadeguati rispetto alle nostre aspettative e a quelle degli altri.
E non solo: porta con sé anche tanta falsità e ipocrisia di chi riappare solo a Natale per gli auguri e magari un regalo, perché si sa “a Natale siamo tutti più buoni”. Come se il resto dell’anno fossimo autorizzati a non esserlo. Ma il punto quindi è che nella percezione di molte persone è come se a Natale fossimo costretti a indossare una maschera, a far finta di essere allegri e felici anche quando di esserlo non ne abbiamo proprio voglia.
Esistono di fatto però, dei fattori scatenanti queste emozioni e sui quali sarebbe opportuno riflettere. Pensiamo a chi ha problemi con la famiglia, a chi con essa non ha buoni rapporti, a chi vive in una situazione di forte conflittualità, o a chi magari la famiglia non l’ha più, o l’ha lontana per varie ragioni. L’obbligatorietà di stare con la famiglia per natale (o la voglia di poterci essere ma non averla più) diventa così un pesante fardello che non fa altro che riportare alla ribalta i nostri problemi e conflitti con essa, facendosi sentire frustrati per il fatto di avere una tale situazione e magari anche di esserne in parte responsabili, o sottolineare l’impotenza a cambiare le cose. In genere la favola della volpe e dell’uva insegna che ciò che non si può avere si disprezza, quindi disprezzare il natale con le sue cene e riunioni familiari diventa un comprensibile meccanismo di difesa.
Possiamo anche pensare a chi ha avuto un’infanzia difficile e tale per cui il natale suscita ricordi di tristezza e solitudine, in cui magari passavamo un triste natale solo con la madre separata, il padre lontano con la sua nuova famiglia, oppure semplicemente un natale vissuto in modo trascurato, tra conflitti e litigi familiari. È chiaro che in situazioni del genere in cui vediamo continue pubblicità e immagini di famiglie felici e riunite sotto alberi e presepi non fa altro che alimentare il nostro sdegno e la nostra frustrazione.
In casi come questi il contrasto tra i luccichii delle strade e delle vetrine, con la felicità che vediamo attorno a noi, nelle pubblicità, e la nostra solitudine interiore diventa così stridente da risultare intollerabile. Ci sono quindi casi in cui siamo realmente soli perché una famiglia non l’abbiamo più, o casi in cui l’abbiamo ancora ma a livello solo anagrafico, perché di fatto non è percepita come fonte di affetto, di sostegno, di calore umano, ma come un semplice insieme di persone che fingono di essere felici ma in cui serpeggia una conflittualità che mal si cela e che condividono ben poco a livello affettivo.
Il natale è anche vissuto male dai single e dalle persone separate: il ricordo di una famiglia che abbiamo perduto, dei genitori che non abbiamo più, e il non sapere dove andare a elemosinare un po’ di compagnia, proprio per il fatto che ognuno per natale se ne sta con la sua famiglia e magari non bada a noi. O anche se ci bada e ci invita a cena magari ci sentiamo di troppo e fuori posto. E così magari ci ritroviamo soli a casa davanti alla TV a macinare e rimuginare sui nostri dolori e i nostri fallimenti personali.
Per altri che hanno problemi con sé stessi il natale porta con sé l’avvicinarsi della fine dell’anno e quindi di terribili bilanci che porterebbero solo a sottolineare i propri fallimenti dell’anno appena trascorso, ciò che non si è fatto, che avremmo voluto fare e non siamo riusciti, quindi frustrazioni e ruminazioni mentali. I giorni di festa possono essere pesanti per le persone disilluse che si aspettavano molto di più dalla vita. Le festività di per sé sottolineano ciò che è mancato – e continua a mancare – fanno sentire molto di più il vuoto, la noia, la malinconia di essere soli, come se il soggetto meritasse una punizione, che naturalmente non merita. La festa festeggia gli affetti, ma certi affetti possono non esserci più, rimangono delusioni per promesse mai mantenute e alcuni rammarichi per non aver fatto quel che si pensava giusto non fare, mentre per queste azioni ci si è pentiti. Il senso di vuoto, la mancanza di senso sconcerta e disorienta e diventa pesante da sopportare. Spesso anche se si è in famiglia e si vive un conflitto (o relazionale o con sé stessi) il natale diventa un qualcosa d’intollerabile perché diventa il dovere di fingere per non deludere chi si aspetta che tu sia allegro e giocoso. Quindi ecco che il natale, festa dell’amore familiare, di coppia e festa degli affetti conviviali si tramuta in un autentico incubo: chi l’amore non può averlo – o sente di essere solo – diventa triste e invidioso di chi egli immagina possa divertirsi e godere di amore.
La festività diventa un nemico che ti obbliga a ricordarti la tua condizione psicologica, come uno specchio che ti segue per tutti i giorni delle feste e ti mette continuamente di fronte i tuoi mostri interiori chiedendoti di guardarli in faccia.
Poi ci sono quelli che hanno subito eccessive pressioni: pressioni ad esempio riguardo al dover fare per forza i regali quando non se ne avrebbe assolutamente alcuna voglia o semplicemente perché i soldi non li abbiamo da buttar via. Magari con quei soldi preferiamo semplicemente fare altro piuttosto che ipocriti regali a destra e a manca. Con questa festa ci ricordiamo delle ristrettezze economiche in cui siamo, accompagnate dalla frustrazione per non poter stare al passo con le richieste consumistiche che la società ci impone. In tal caso sarebbe davvero il caso di capire che il natale non è una corsa all’acquisto, e approfittare di ciò per riscoprirne il senso, visto che di fatto del natale si è perso totalmente lo spirito (cristiano o pagano che sia) e si bada solo al comprare, consumare, mangiare a sbafo, viaggiare.
In realtà i significati che si celano dietro alla festività rimandano a temi di morte e di rinascita. Il Natale ha radici lontane e prima di diventare un simbolo della cristianità, veniva celebrato dalle antiche civiltà pagane nel suo significato di rinascita dopo la lunga notte. In effetti questo è il periodo dell’anno in cui le giornate sono più corte e il buio sembra prevalere sulla luminosità. L’antica festa del Sol Invictus era proprio questo: la festa del ritorno della luce, poi soppiantata dal cristianesimo con la nascita di Gesù. L’attuale rito di scambiarsi i regali, che oggi viene vissuto nei suoi aspetti più consumistici, in realtà ha un’origine molto antica e già nelle Saturnali dei romani, 1000 anni prima di Cristo, si offrivano doni ai defunti. Il nostro Natale però contiene anche elementi provenienti dalle tradizioni nordiche. Babbo Natale, che nella leggenda è San Nicola, viene ricordato per la sua bontà e generosità per aver donato sacchetti di monete, a tre donne povere che, senza dote, non avrebbero mai potuto sposarsi. E anche il nostro attuale rito di riunirsi in famiglia ha origini remote e lo ritroviamo anche nelle antiche tradizioni nordiche. Ma tutto questo, che è veramente lo spirito del Natale, è andato perduto dietro all’onda del consumismo e dello sperpero, dell’ipocrisia e del finto buonismo. Quindi non è solo Gesù che nasce, o il Sol Invictus, ma dobbiamo essere noi. La rinascita deve essere nostra, in primis. Perciò non serve affatto essere cattolici o cristiani per festeggiare il Natale: esso ha radici così lontane che è la festa di tutti: di chi è solo o di chi è in compagnia, di chi è triste e di chi è felice, di chi ha figli e di chi non ne ha. Perché è festa di rinascita e tutti abbiamo il bisogno di rinascere.
Ecco quindi che il natale, in un modo o nell’altro, ci impone di guardare in faccia i nostri disagi interiori e a volte anche i nostri drammi, il triste bilancio della nostra vita, cose che preferiremmo non vedere. Ma è davvero del natale la colpa? Ammettiamo che i problemi li abbiamo a prescindere e guardiamoli in faccia. Non diamo la colpa al Natale e alla felicità che essa trasuda. Occuparsi del proprio disagio è importante oltre che utile. Se si vive un momento difficile non ci si può costringere a far finta di nulla per un intero anno, per poi arrivare a natale ed esplodere di tristezza e angoscia. Sarebbe bene cominciare a capire che è il caso di dedicarsi del tempo per comprendere e per esprimere il proprio malessere, per affrontare i nostri nodi irrisolti e i nostri piccoli e grandi drammi interiori, le terrificanti voci del nostro inconscio. Perché di questo si tratta, che ci piaccia o no ammetterlo. Il natale ce lo mette semplicemente davanti in tutta la sua concretezza, ma forse non dovremmo attendere la fine dell’anno per occuparci del nostro benessere. Trascorsa la festività, sarebbe il caso che quelle persone angosciate riflettessero seriamente su sé stesse per risolvere questo senso di vuoto che sarà pronto a emergere in ogni momento, con il trascorrere del tempo, e non solo durante le festività, comprese le domeniche e i giorni in cui solitamente si sta in famiglia. Perché la vita così rischia di diventare un pesante fardello che ci ricorda spesso e volentieri la nostra condizione.
Ma nel frattempo le feste ci sono, stanno arrivando: abbiamo un modo per vivere il natale in modo diverso?
Si, uscendo dall’edonismo e dalle frenesie consumistiche e pensando al vero senso, cristiano o pagano che sia, che questa festa ha: ovvero condivisione e rinnovamento interiore. E cominciamo a farlo tagliando via tutto l’aspetto consumistico, facendo regali minimi, come cose fatte a mano come ricami, biscotti, lavoretti di decoupage, ma anche un fiore seccato, un biglietto, una canzone.
Impariamo a uscire dal consumismo comprendendo che non contano gli oggetti ma i gesti e i sentimenti. Diamo invece un secco ma pacato “no” a tutti quegli acquisti che viviamo come un obbligo e che non ci sentiamo di fare: se abbiamo soldi da spendere facciamo invece beneficenza, pensando a chi sta peggio di noi o per qualche giusta causa. E occupiamoci un po’ di riscoprire il senso altruistico (quello vero) della festa, andando a trovare chi è solo, chi sta male, chi ha un periodo difficile, chi ha perso gli affetti. Molto meglio questo che non fare una consumistica e vuota corsa a inutili regali. Perché purtroppo è vero che il natale si è ridotto a una festa di facciata in cui si regala tanto a livello materiale ma ben poco a livello affettivo.
E se non vogliamo elemosinare accoglienza al cenone natalizio rimaniamo soli, ma facciamolo in modo sano, evitando di rinchiudersi nella frustrazione e di scrivere su Facebook sfoghi rabbiosi e acidi su quanto odiamo il natale: marcire nella rabbia non porta a nulla. Quindi restiamo pure soli, ma non contro gli altri, per sé stessi, non per depressione o per protesta o autocompiacimento, bensì per scelta consapevole: un viaggio introspettivo, accompagnati dal periodo rituale del sol invicuts, per riflettere, per ascoltarsi. Che il natale diventi così davvero quella festa in cui muore il vecchio e rinasce il nuovo, come nell’antica festa: tanto non ha senso allontanare da sé il dolore, se non affrontiamo i nodi problematici della nostra vita essi diventeranno mostri che ci inseguiranno sempre, per quanto possiamo distrarci dalla loro presenza. In occasioni come queste verranno a trovarci. Non ha senso dire “se non ci fosse il dannato natale non ci penserei”. È solo un grande autoinganno: ci sono i dolori interiori, solo che si fa finta che non ci appartengano.
L’essere umano è un animale rituale e liturgico, che si chiami cristianesimo, religione della dea, druidismo o che dir si voglia, l’uomo ha bisogno di riti di passaggio: quando essi venivano celebrati in gruppi comunitari allargati e uniti dal vero spirito del rito, la solitudine non esisteva e in questi momenti i propri mostri interiori venivano accompagnati dalla comunità nel rito e resi meno terrificanti: la loro importanza veniva resa simbolica e quindi ridimensionata, gli veniva attribuito un significato e la persona poteva prenderne il lato positivo per sé stesso. Oggi siamo soli e dispersi in un mondo globalizzato dove quei significati si sono sepolti sotto il peso svalutante e isolante del consumismo: una società globale ma i cui membri sono sempre più soli. E allora dobbiamo imparare che ognuno ha una grotta dentro di sé dove deve ritirarsi per entrare in contatto con sé stesso e rigenerarsi. Il Natale ci ricorda che un Dio bambino è in mezzo a noi e per incontrarlo abbiamo bisogno di penetrare in un luogo intimo e silenzioso, una grotta, la grotta della nostra essenza che proprio a sua immagine e somiglianza ci è stata data.