Talento e pensiero positivo alla scoperta del progetto di sé stessi

Assai spesso mi capita di avere a che fare con pazienti disorientati, alla ricerca di una strada, del proprio progetto di vita. Qual è la ragione per cui oggi ci sono un sacco di persone che di questo progetto non hanno idea alcuna? Le ragioni sono plurime, vediamole.

Innanzitutto siamo eccessivamente inglobati e oserei dire fagocitati, da quelli che sono progetti non nostri, strade che non ci appartengono: quanti figli seguono il mestiere del padre solo perché si trovano la strada già spianata? Quanti fanno una certa facoltà universitaria perché seguono un sogno che non è il proprio bensì quello dei genitori? Oppure quanti ancora faranno un certo lavoro, una certa facoltà, perché non hanno la minima idea di quello che vogliono dalla loro vita? Ebbene, si potrà davvero riuscire bene, ma soprattutto sentirsi profondamente appagati, da un lavoro che non ci appartiene e che non sentiamo nostro? Forse alla bell’è meglio ci possiamo anche riuscire, ma siamo poi sicuri che ci sentiremo da esso soddisfatti nelle nostre esigenze profonde? Ne dubito. A dimostrarlo è il fatto che spesso, arrivati alla mezza età, scatta la classica crisi in cui l’edificio della nostra esistenza crolla come un castello di carte con uno spiffero d’aria. Si inizia a fare un bilancio della propria vita e ci si accorge dei  passi sbagliati che abbiamo fatto, delle scelte che non volevamo fare realmente e cadiamo nel rimpianto del tempo perduto.

Ebbene, perché sprofondiamo in questo sentimento? Perché di fatto le scelte che abbiamo fatto nella vita fino a quel momento ci hanno allontanato dalla nostra vera natura, pian piano, strada facendo, ci siamo allontanati da quel sentiero che, se lo avessimo imboccato, ci avrebbe portato verso il compimento di noi stessi. Si perché è questo il fondamentale scopo della nostra vita: dare compimento a noi stessi. Prendiamo il seme: un seme ha già dentro di sé tutto il progetto della sua esistenza: un seme di quercia, se lasciato fare il suo corso naturale, diventerà una quercia; il seme del faggio diventerà un faggio. Ebbene, il nostro Io profondo è come i semi: in esso, dentro di noi, c’è già il progetto della nostra vita, e noi siamo su questa terra per dare compimento a noi stessi, attualizzare il nostro progetto e metterlo a frutto. La sofferenza nasce dal resistere a questo progetto interiore, deviando dal cammino per noi giusto a favore dei desideri della famiglia, del partner, della società e di chiunque altro. E invece noi non dobbiamo interferire nel progetto di un altro tanto quanto a un altro non è permesso d’interferire nel nostro. Se non ci amiamo abbastanza allora permetteremo questa interferenza, ma così ci perderemo per strada. E questa strada personale è ottimamente esemplificata dai talenti di cui parla Gesù nei Vangeli: tutti li abbiamo, ma ben pochi li fanno fruttificare. E spesso dipende dal fatto che non riconosciamo neanche di averli, questi talenti o li confondiamo con cose che nulla hanno a che vedere con essi.

Innanzitutto il talento non è un abilità eccezionale, non occorre faticare per conquistarlo, non c’entra col successo o col denaro, non è un privilegio di pochi, non ha età. Il talento è semplicemente quell’insieme di energie creative personale che sanno da sole dove portarci se non interferiamo con pregiudizi, pessimismi, ragionamenti, vie obbligate o mancanza di autostima. Il talento non può crescere laddove tentiamo di arginarlo in un percorso obbligato, da altri o da sé stessi: prenderò il diploma, mi iscriverò a giurisprudenza, farò l’avvocato…il talento non nasce nella programmazione, ma da sé’, quando arriva il momento. In questa società che ci vuole brillanti e intraprendenti è assurdo non sapere cosa si vuole fare della propria vita: allora ci si obbliga a scelte che non ci appartengono. Emblematica è la storia di Mattia: Dopo il diploma, Mattia ha fretta di diventare autonomo e per questo accetta un lavoro nell’esercito. Dopo un breve periodo, insoddisfatto, si licenzia. Torna a casa e per passare il tempo comincia ad aiutare la mamma in cucina, diventando ben presto più bravo di lei. La famiglia gli propone allora un corso da chef ma lui non se la sente, il percorso sarebbe troppo lungo. Accetta invece di lavorare al mercato ortofrutticolo, dove il lavoro è duro ma la frutta e la verdura che porta a casa gli ispirano nuove ricette. Convinto dal continuo pressing familiare, accetta di fare un corso di cucina dove ottiene risultati brillanti. Di nuovo, a un passo dal diploma, inspiegabilmente lo interrompe gettando tutto all’aria. Mattia è molto scoraggiato: tutto quello che fa si rivela un fallimento, gli pare di non trovare la sua strada. L’unica cosa che lo risolleva è chiudersi in cucina e preparare piatti sempre più elaborati. Finché, grazie a un amico di famiglia, arriva inattesa la chiamata da un grande ristorante della sua città. Il colloquio va bene, Mattia accetta il lavoro e lo porta avanti senza più incertezze. Il suo talento, finalmente maturo, può dispiegarsi. Questa storia dimostra proprio che il talento non è qualcosa che necessariamente emerge quando lo vogliamo: anzi, qualora insistiamo nel volerlo far emergere è proprio allora che non lo farà.

Ma come si fa a capire quando la nostra strada è quella giusta e quando invece non ci appartiene? In genere il talento è un qualcosa che emerge all’improvviso, quando non ci stavamo pensando: di colpo, senza magari averci neanche pensato prima, ti rendi conto che la strada è quella giusta. Questi sogni si riconoscono perché non sono molto elaborati, non sono fatti da una serie di tappe già preordinate, non fanno rimuginare in continuazione: sono un fuoco che senti dentro e che, ogni volta che lo assecondi, ti fa stare bene. E attenzione: non ti fa stare bene solo quando lo avrai raggiunto appieno, ti fa star bene già nel cammino che ti porta a esso. Ma soprattutto questi passi…non pesano affatto! Laddove seguiamo una strada non nostra sentiamo peso e fatica, o quantomeno una strisciante insoddisfazione di fondo. È chiaro che tutto dipende da quanto siamo in contatto con noi stessi: ad esempio Elisabetta ha dato talmente per scontato che doveva diventare dentista come il padre e non ha mai dubitato di questo cammino, perché farlo avrebbe implicato creare una frattura col padre tanto amato. A 50 anni però una malattia la costringe a smettere di lavorare: Elisabetta cade in depressione, una depressione che la costringe a rivedere la sua vita e le sue scelte e all’improvviso, durante il percorso psicologico, arriva l’illuminazione: il sogno sempre negato di aprire una libreria. Il cammino che non ti appartiene ti stanca ancor prima di arrivare alla meta e, anche qualora arrivi in fondo con molto sforzi e sacrifici, avverti comunque un senso di vuoto e di sottile amarezza. Allora per non sentire la delusione e il vuoto riparti subito con un altro progetto pensando che sarà il prossimo a farti sentire appagato.

A tal proposito voglio anche citare l’esempio di quelle persone che vengono da me dicendo “sono un fallimento, tutto quello che decido di fare per la mia vita non va in porto”. Io allora lancio una provocazione profonda, che spesso lascia sbigottiti e anche indispettiti, ma ovviamente è bene che sia così, significa che ho colto nel segno: ovvero dico chiaro che “se non hai raggiunto quella meta è perché non ti apparteneva!”. Il nostro io profondo, quello che contiene in sé il nostro progetto esistenziale, sa bene che quella strada non è giusta per noi ed ecco che quindi, come una sorta di saggezza interiore che ci guida, cerca di allontanarci da un cammino non nostro. A volte infatti i nostri sogni, così come quelli notturni, vanno interpretati nel loro messaggio profondo: come Antonia, che cercava da anni di andare a vivere in campagna, voleva la terra, gli animali, un agriturismo: cercare di realizzare questo sogno la stremava, le ha portato enormi sacrifici, fatiche. Proprio quello che un vero sogno non dovrebbe portare. Arrivata alla meta si è sentita sola in quella casa di campagna, le crollò il mondo addosso. Cos’era successo? Semplicemente che il desiderio di andare a vivere in campagna non significava che doveva davvero andare lì a vivere: semplicemente doveva reintrodurre naturalezza in una vita totalmente artificiale, priva di naturalità, composta da doveri fissi e standardizzati, un lavoro non appagante, una vita non a contatto con la natura.

Ma per aprire la strada a sogni e talenti è assolutamente necessario un altro ingrediente: un atteggiamento ottimistico, fiducioso e positivo. Troppo spesso ci dimentichiamo che noi siamo fatti di energie (lo stesso meccanismo di comunicazione del nostri neuroni produce energia!) e tali energie, se mal incanalate o non espresse, ci portano totalmente fuori strada. Chi mi conosce e conosce il mio modo di lavorare sa già bene che io ho ben poca tolleranza con atteggiamenti lamentanti e vittimisti: anche gli studi neuro scientifici dimostrano che il lamentante depaupera i propri neuroni cerebrali e il perché è ovvio: lamentarsi, avere una visione della vita negativa e pessimistica, non riconoscendo i propri talenti e qualità, non permette affatto di mobilitarsi in modo attivo nella vita. Se io mi presento ai colloqui di lavoro come un perdente affranto dalla vita chi mai dovrebbe credere nelle mie qualità se io per primo mostro a tutti la faccia della persona negativa e scoraggiata? Non credo e non ho mai creduto alla fortuna nella vita, la fortuna non esiste. Se io sono a contatto con me stesso in modo positivo allora non solo riuscirò a riconoscere quali sono le mie doti, talenti e qualità, ma le mobiliterò anche al servizio del mio progetto esistenziale. Mentre cammino verso la mia meta, quella vera, sono felice: nel frattempo devo cercarmi un lavoretto? Ottimo, me lo cerco e se lo cerco lo trovo. Il lavoro c’è eccome per chi lo cerca con atteggiamento positivo e ottimistico: se io vado a fare colloqui con l’aria perdente che ho detto prima di certo sarò ben poco attraente per un datore di lavoro. Posso citare il caso di Paola 32 anni, che va in un negozio di vestiti a proporsi come commessa: si presenta al negozio con sciatteria interiore, senza energia, col pensiero fisso in testa “tanto figurati se prende proprio me”. Ottimo atteggiamento per essere appetibili. Ovviamente la datrice di lavoro prende il curriculum, fa due domande e di certo l’energia negativa che traspare da Paola non fa una buona impressione su di lei. dopo qualche tempo allo stesso negozio si presenta Patrizia, 35 anni: atteggiamento positivo, certezza di avere le doti giuste per fare quel lavoro, voglia di mettersi in gioco e soprattutto saper dire a sé stessa “se va male significa che non era per me”. Morale della favola Patrizia è entrata, Paola no.

Posso concludere con un altro esempio: Antonella, psicologa, non si ritiene affatto fortunata, semplicemente crede in quel che fa, sa di essere capace e di avere talento nell’aiuto alla persona e si dà da fare costantemente per raggiungere il suo obiettivo. Si impegna molto ma la fatica non le pesa, anzi il cammino stesso di scoperta dell’animo umano la affascina. Non ha seguito i percorsi convenzionali già preimpostati che la volevano a fare la scuola di psicoterapia, o infilata in qualche cooperativa a fare un qualcosa che non le piaceva, o nei circuiti sanitari e burocratizzati. Ha scelto una via tutta sua e ha molti pazienti. I suoi colleghi e colleghe che non vedono un paziente da mesi la ritengono sfacciatamente fortunata, in realtà non è affatto fortuna: quella era la strada di Antonella, una strada tutta sua, perseguita con ottimismo, propositività, coraggio, voglia d’imparare e migliorarsi, consapevolezza delle proprie capacità. È solo questa la fortuna, di magia non ve n’è alcuna.

DOTT.SSA CHIARA PICA

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